PROLOGO
I
PARALIPOMENI POWER POINT AGGIORNAMENTI
La Storia di Berta &… C.
Altresì detta
Bertancomarziomachia
NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA
VITA
FU RINVENUTA IN UN CASSETTO
OSCURO
LA STORIA CHE DA TEMPO ERA
SMARRITA.
DI COSA FOSSE, NON ERO SICURO,
QUESTA STORIA SUBLIME, ASTRUSA E
FORTE,
DOVE FANTASMI, A SUON DI TAMBURO
MANDAVAN, FORSE IN PERICOL DI
MORTE,
LA FORZA “APACE”, IN AVANSCOPERTA
A SONAR CAMPANELLI SULLE PORTE
PER SINCERARSI S’ERA IN CASA
BERTA.
CHI SARA’ STATA, POI, LA
GABRIELLINA
CHE RACCONTO’ ‘SI’
SERIA LA SCOPERTA,
QUEL GIORNO IN CLASSE, DI TARDA
MATTINA,
D’ UN SAL DI RANIO, CIOE’
DELL’ANURO,
PER TOSTO DISCOPRIR, LA POVERINA,
SU L’ATTONITO VOLTO DEL PAGURO,
CH’ERA QUEL SAL DEL GALASSI IL
PRODOTTO.
LEI CI RESTO’ COSI’ MAL, DI
SICURO
CHE SCOPPIO’ TOSTO IN UN PIANTO DIROTTO.
SEGUE IL RACCONTO DI STRANI
ANIMALI
CAVALLI PAZZI, LEONI, UN
BASSOTTO,
FORSE UN MANDRILLO DI QUELLI
SOCIALI.
PUR D’UNA FOCA, SONANTE BUCCINE
DICE LA STORIA, E DI TIPI
SPECIALI:
D’UN COMUNISTA, E DI BONE
BAMBINE,
DI CAVALIERI, DI RE E DI FANTI,
DI PRINCIPESSE, E DI BELLE REGINE
PERSEGUITATE DA I SICOFANTI
SEMPRE IN AGGUATO FEROCI E
SICURI.
COME FINISCE LA STORIA DI TANTI?
LA MAGGIOR PARTE DIVENNER MATURI.
DOPO TRENT’ANNI DI NUOVO LI SENTI
COME A QUEI TEMPI, GLI IMPERITURI
SONO DI NUOVO QUI TUTTI PRESENTI,
PERFIN DANIELA, CHE ANDO’ SPOSA
AL CECCO.
OR CI SOVVIENE DI QUEI POCHI
ASSENTI,
‘SI’ CI SOVVIENE DEL TARLO, DEL
SECCO
E DI REBECCA, RIPOSINO IN PACE:
SEMBRA D’UDIR LE LOR VOCI… SI’,
ECCO…
DAL PARADISO, CI GRIDANO: “APAACE!!!”
Il lungo idillio con Berta è cominciato i primi
giorni del primo liceo. All’inizio, come tutte le storia
d’amore, il sentimento reciproco era molto tiepido: un’altra delle cento
avventure di noi, giovani studenti, con il corpo insegnante.
La vecchietta ultra-sessantenne si era presentata
come la nuova insegnante di Latino e Greco, per i prossimi tre anni, fino alla
maturità classica, e si era ripromessa di fare un buon lavoro in comune, per
rivelarci tutti i segreti delle meravigliose lingue di Cicerone e di Erodoto.
Impossibile dire che la lezione di apertura ci
avesse entusiasmato, comunque nessuno, a parte forse Nando, sospettava
minimamente cosa sarebbe successo di lì a poco.
Non ci mancavano certamente interessi scolastici a
quel tempo: il prossimo “derby”, le ragazze del quinto ginnasio, la nuova
Lambretta di Giulio e la lega di calcio balilla contro il primo B, che voleva
la rivincita dalla bruciante sconfitta dei quinti dell’anno passato...
Il corpo insegnante si era completamente
rinnovato, tranne Don Pucci, il simpatico prete che ci passava l’ora
settimanale di Religione. Don Pucci era Laziale, mentre noi, Amedeo escluso,
eravamo tutti romanisti, quindi i pronostici del totocalcio quel giovedì
avevano la precedenza sui Dieci Comandamenti.
I miscredenti più accesi avevano perfino promesso
a Don Pucci che si sarebbero confessati, se la Lazio avesse vinto, cosa
ritenuta.... impossibile.
Dal quinto al Primo avevamo perso per strada
qualche compagno, specie donne. In via del tutto naturale era diminuito l’interesse
per il sesso debole della classe, in tutto sei ragazze, di cui solo tre
passabili (+ una quarta... con la condizionale), ed era proporzionalmente
aumentato l’interesse per gli altri argomenti scolastici di cui ho parlato
poc’anzi.
Uno dei nostri sport preferiti, in cui eccelleva
specialmente Pierluigi, era l’a-sport-azione di...
tutti gli oggetti “asportabli”. La collezione
comprendeva oggetti semplici, come il cancellino, il cestino dei rifiuti ed i perni dell’attaccapanni, ed oggetti che difficilmente
potevano essere asportati, senza che la mancanza fosse notata: la manovella
delle finestrelle superiori e... la fòrmica dei banchi.
La tattica generalmente adottata era quella dell’asportazione graduale, in cui l’oggetto
spariva un bel giorno, per riapparire l’indomani, se il bidello o qualcuno del
corpo insegnante ne aveva notato l’assenza. La manovella della finestra
centrale aveva fatto l’andirivieni una ventina di
volte ed il ritratto del presidente della Repubblica una decina. L’unico
oggetto tabù era, ovviamente, il Crocifisso.
I perni dell’attaccapanni sostennero una strenua
lotta ad ogni intervallo, finendo per arrendersi uno
ad uno, ma ritornarono puntualmente al loro posto dopo il primo acquazzone
d’Inverno, per dare la possibilità ai più freddolosi di appendere i cappotti.
Ogni tanto uno dei perni cedeva sotto il peso degli impermeabili, ma cosa
volete pretendere da un povero pezzo di legno appena incastrato nel suo buco,
senza ombra di colla o di chiodi?
Impresa molto più complessa si rivelava
l’asportazione della fòrmica dei banchi; il possesso di un pezzo quanto più
grande possibile era innanzi tutto una questione di prestigio, un po’ come la
tessera di riconoscimento della leadership. Nando possedeva dal Quinto un pezzo
raro, grande come una mattonella, ed era considerato un po’ il capo della
classe, riguardo tutte le “azioni” future, fino a che qualcuno non fosse
riuscito ad impossessarsi di un pezzo di formica più
grande.
A prima vista “spellare” lo strato di formica
piano di un banco, in tutto circa un metro quadro, può sembrare un’impresa
facile, ma in realtà esistono problemi tecnici e... sociali che la rendono
insormontabile.
Il primo problema
puramente tecnico è quello di trovare il punto debole
del piano, in generale uno degli angoli, dopodiché è possibile continuare lo
spellamento, piano piano.
Due nemici giurati si
oppongono all’impresa: il primo è la colla del costruttore, nelle cui
intenzioni c’era stato un banco decisamente destinato
a servire almeno tre o quattro generazioni. Il secondo era il ”punto critico”,
momento delicato in cui la più piccola pressione causa una frattura nella
formica e rende inutile tutti gli sforzi per ottenere un pezzo più grande. Il
punto critico può variare da banco a banco e dipende dall’utensile usato per il
lavoro: nel caso dell’abituale cacciavite, è molto difficile ottenere un pezzo
di formica più grande di mezza mattonella, specie se
la colla è particolarmente resistente.
Questi sono i problemi tecnici. Riguardo quelli
sociali: innanzi tutto non tutti i banchi potevano essere spellati. E’ chiaro
che se Peppe, che sedeva in prima fila, avesse deciso di darsi da fare, la cosa
sarebbe stata immediatamente notata, quindi i banchi “spellabili” erano solo
quelli dell’ultima fila: quelli di Nando, Pierluigi e Romolo.
Dopo un mese di duri sforzi Pierluigi era riuscito
ad arrivare quasi al punto critico, Nando seguiva a ruota, mentre Romolo era
stato costretto da un angolo particolarmente incollato a scambiarsi di posto
con Albertino, per procedere all’azione dalla parte opposta.
L’insegnante di Italiano era passata
dall’insegnamento alle medie inferiori a quelle
superiori, per la prima volta quell’anno; Il sabato prima del derby Nicola, che
senza dubbio era il più acceso tifoso romanista della classe, aveva scritto
sulla lavagna “M la Lazio in caratteri cubitali. Purtroppo, prima di poter
completare la scritta con le virgolette, l’insegnante fece il suo ingresso
trionfale e lo colse sul fatto.
Nicola le dette un buongiorno rumoroso, non celando
un largo sorriso di soddisfazione da un orecchio all’altro. L’insegnante,
indubbiamente era rimasta stupefatta di essere stata accolta, il primo giorno
di lezione, non da una classe di ragazzini in religioso silenzio sull’attenti, in trepida attesa di rispondere al buongiorno,
bensì da un giovanottone grasso dalle mani sporche di gesso, come un cantante
blues che, inoltre, le ostruiva l’accesso alla cattedra.
La reazione fu immediata e... malpensata: Nicola
fu spedito... dietro la lavagna!
La scena era era
veramente comica. In Primo Liceo dietro la lavagna! Mancava soltanto il
cappello con la scritta “ASINO” ed eravamo pronti a ritornare ai tempi delle
favole!
Nicola non poteva trattenere le risate, e noi, una
volta ripresi dallo shock, avevamo incominciato a muovere le sedie per
protesta.
Sedevamo ai banchi a coppie, ma ognuno aveva la
sua sedia personale. Alle gambe c’erano dei tappetti di gomma che, a forza di
strofinamento, erano completamente consumati, così che il minimo movimento
causava uno stridio insopportabile.
Nella confusione generale Nicola produsse il suo
famoso verso della foca, un poderoso suono riproducente a perfezione il latrato
di quel nobile animale, ma “leggermente” aumentato di un bel po’ di decibel.
La povera insegnante non sapeva più cosa fare, e
la campanella della fine salvò la situazione.
Ci alzammo tutti in piedi, concludendo
così, con un poderoso stridio, ed andammo a presentare le condoglianze a Nicola
per l’accaduto, preparandoci alla grande festa del lunedì, per la certa
vittoria della Roma.
La Lazio vinse per 2 a 1.
Il goal della vittoria era stato segnato in presunto fuorigioco.
Lunedì Amedeo era raggiante, mentre tutti gli
altri erano in lutto, specie Peppe, Nicola e Pierluigi.
L’insegnante di Storia
dell’Arte era un tipo decisamente nevrotico. Al minimo
rumore saltava su e cominciava a parlare con un tic nevrotico dei lavori
medievali del Gotico e del Romanico, facendo domande all’improvviso, per
richiamare l’attenzione, il peggiore sistema per richiamare l’attenzione.
Michele e Giulio erano sprofondati in un’accanita partita di “pallette e
quadratini” e la suddetta interrogò Michele, sul più bello della mossa
conclusiva, sulla differenza tra la bifora e la trifora nella costruzione dei
campanili medievali. Michele, decisamente scocciato
per l’interruzione, se ne uscì con la frase, poi passata alla Storia: “Ma che
ne so io di quei campanili dei tempi che Berta filava! Adeso li costruiscono di cemento armato!”. Per un buon mese
l’insegnante di Storia dell’Arte fu chiamata Berta.
La professoressa M.L. di
Latino e Greco era un tipo piuttosto arzillo. Proveniva da una buona famiglia,
il padre era stato, a suo tempo, giudice o giù di lì. Per circa trent’anni,
dopo la laurea, si era dedicata ad opere di
beneficenza facendo, a quanto pare, la crocerossina in Africa Orientale ed in
Russia, durante la Guerra. L’attività non le aveva consentito di mettere su
famiglia ed era rimasta signorina. Negli ultimi dieci anni si era dedicata
all’insegnamento nel liceo “Tasso”, in città, da dove era passata a noi, in
seguito al cambiamento dello stile di educazione impartita.
In seguito alla riforma didattica, nei migliori
licei era incominciata ad apparire una maggiore apertura mentale da parte degli
insegnanti, nei confronti degli alunni, e la vecchietta, rimasta indietro di
almeno trent’anni, non era riuscita più ad accattivarsi la simpatia degli
alunni e del corpo insegnante di quel liceo, particolarmente aperto alle
innovazioni pedagogiche.
Tutto questo noi all’inizio non lo sapevamo. Lo
siamo venuti a sapere col tempo e poco a poco. L’unica cosa che notammo,
all’inizio, era la strana forma di dialogo della professoressa, un misto di
Latino, Greco e di parole ripetute ininterrottamente, il tutto accompagnato da
una voce in falsetto ed da una risatina di
soddisfazione ad ogni perla letteraria:
“E allora, parlando di Catullo –vero- bisogna
ricordare che è il migliore poeta della letteratura –vero- latina, a meno che voi non siate –vero- della scuola di Virgilio, e
pensiate il contrario –vero- . D’altronde nel periodo aureo –vero- non solo il ‘Carpe Diem’, ma anche il ‘Carmis
Secularis’ sono da considerarsi –vero- ...” ...
A noi del ‘Carpe Diem’
non ce ne fregava un tubo, naturalmente, ed ancora meno del ‘Carmis-vattelappesca’. Continuammo indisturbati a discutere
sulla posizione di fuorigioco dell’attaccante Laziale del
derby. Peppe ed Amedeo stavano cercando di dimostrare
l’uno all’altro le proprie teorie sull’incontro. La cosa richiedeva un certa dose di
acrobazia da parte di Peppe, che sedeva non accanto ad Amedeo, ma al banco davanti a lui. All’inizio
Peppe sussurrava, con la mano davanti alla bocca, ma
Amedeo non riusciva a sentire bene. Peppe prese ad
inclinare la sedia all’indietro, sostenendosi con la mano libera al banco, ma
la sua posizione era piuttosto precaria, finché, riscaldandosi nella
discussione, fece una mossa falsa e capitombolò a terra con tutta la sedia,
producendo un suono terribile, che riuscì a svegliare Nando dal suo profondo
sonno.
La vecchietta osservò stupefatta il grosso corpo di
Peppe, che cercava di tornare a galla dolorante, ed
incominciò a spiegare che “Ai miei tempi –vero- i giovani erano forti e
prestanti e non cadevano dalle sedie” e non so che altre fesserie
sull’indebolimento generale delle nuove generazioni.
Nando le appiccicò quel giorno l’appellativo di
Nonna Abelarda, la vecchietta arzilla e forzuta dei fumetti.
Nando era l’appiccica-soprannomi
per eccellenza. Il professore di Chimica, un toscano giovane e simpatico, venne chiamato “Bernardo l’eremita”, o più semplicemente “Il
Paguro”. Alla fine dell’anno il Paguro chiese a Nando il perché di quel
soprannome e ricevette la seguente risposta: “Perché sei innocuo!”.
Tranne me ed Emilia (la compagna “con la
condizionale”), due persone capitate quasi per sbaglio al classico, nessuno
eccelleva nelle materie scientifiche; la situazione era ancora passabile in
Matematica, perché l’insegnante, benché fosse un tipo decisamente
nevrotico, riuscì a mantenere un buon livello e, fin dall’inizio, la
disciplina; nelle sue due ore settimanali ci limitavamo a sonnecchiare, ed il
tempo passava. In Chimica non c’era, invece, proprio nulla da fare: il più
bravo insegnante non sarebbe riuscito a far entrare nella testa di Peppe e di
Nicola la differenza tra l’Ossigeno e l’Idrogeno, nemmeno se avesse spaccato la
stessa ed infilato un foglio con la spiegazione. Il
Paguro non era stupido e capì velocemente la situazione. Cercò di interessarci
alla materia, ma sapeva bene che, a parte due o tre persone decisamente
portate per la stessa, non valeva la pena di lottare contro i mulini a vento e,
quando durante le interrogazioni suggerivamo, faceva finta di non sentire, se
non avevamo alzato un po’ troppo la voce. In quelle occasioni io mi scambiavo
di posto con Peppe, che passava al terzo banco. Dalla mia nuova posizione
strategica passavo alla fase attiva: il sistema più silenzioso era quello del
linguaggio dei muti con le mani. Spesso l’interrogato incominciava a dare una
risposta e guardava per aria: con un leggero cenno del capo e con una smorfia
gli facevo capire se la risposta era sbagliata e la situazione poteva essere
salvata in calcio d’angolo nella maggior parte dei casi.
In cambio dell’aiuto dato in Chimica, ricevevo
simili suggerimenti nelle materie in cui ero debole. Per i compiti in classe di
Latino avevamo già un’organizzazione collaudata: Peppe curava la sintassi,
Giulio traduceva la prima parte, Ezio la seconda, Amedeo faceva la ricerca
delle parole difficili ed io facevo il postino. Ad una
mezz’oretta dalla fine del tempo le varie parti venivano concentrate da Giulio,
che curava la traduzione in buona lingua, e da lì venivano sparpagliate a tutti
i collaboratori, che procedevano a cambiare qua e là qualche parola, per non
consegnare delle semplici copie.
Il passaggio dei bigliettini richiedeva una certa
destrezza: uno di noi andava a chiedere una spiegazione, richiamando
l’attenzione da un lato, ed altri due passavano
velocemente il documento incriminato dall’altra, una tecnica in uso da varie
generazioni in tutto il mondo.
Un giorno la vecchia Abelarda ci dette un compito
particolarmente difficile. Nonostante gli sforzi il tempo
stringeva e Giulio era ancora in fase di ritocco a cinque minuti dalla
campanella. Nando perse la pazienza, si alzò senza chiedere il permesso e,
presa la brutta di Giulio, si mise a copiare il pezzo difficile, come se la
cosa fosse perfettamente naturale. Per la prima volta facemmo la conoscenza
della faccia di Nonna Abelarda in crisi: il colore grigiastro naturale cambiò
in rosso di rabbia, in giallo di bile, per passare al verdino e di nuovo al
grigio. Gli occhiali a mezzaluna quasi caddero dal naso e la frase strozzata
venne fuori a stento: “Ai miei tempi – vero – queste cose non succedevano!”
Nando venne spedito fuori
dalla classe, ma non uscì prima di aver finito il suo lavoro e di dire: “Va
bene, vecchia, ma attenta alla pressione!” La campanella suonò di lì a poco e
concluse quel giorno intenso di avventure.
La mattina seguente l’addetto ai manifesti,
Nicola, scrisse “M la vecchia Abelarda” sulla lavagna. Il caso volle che la
prima insegnante ad entrare in classe fosse quella di
Storia dell’Arte. Appena vista la scritta prese ad
urlare non so cosa sulla mancanza di educazione e sembrava molto offesa di
quell’appellativo, credendo che fosse diretto a lei. Nicola cercò di spiegarle
che il suo soprannome era Berta e non Abelarda; la tizia non mostrò la minima
comprensione. Voleva sospendere l’autore, ma non potette dimostrare chi fosse
stato.
Visto l’entusiasmo da parte sua, decidemmo che il nome
Abelarda fosse di sua proprietà, mentre, venendo a mancare un soprannome per
l’insegnante di Latino e Greco, questa fu chiamata Berta.
Un mese dopo l’insegnante di Storia dell’Arte fu trasferita e l’appellativo Nonna Abelarda andò in disuso. Il
soprannome Berta, invece, fiorì e passò alla Storia.
Una penna a sfera,
svuotata del refill, è un’ottima cerbottana, il riso è un proiettile del giusto
calibro e la testa di Giovanna è sempre stata il miglior bersaglio.
Giovanna era la ragazza più brutta della classe.
Bassa, con le trecce e gli occhiali, si vestiva da paesana e sempre fuori moda,
non era brillante in nessuna materia e sedeva accanto
a Daniela che, quasi in antitesi, era la ragazza più “bona” della classe.
È un fatto decisamente
curioso, ma ripetutamente provato, che le ragazze vadano a coppie, quelle belle
sempre accompagnate da altre particolarmente brutte, quasi ad esaltarne le
qualità fisiche, di cui sono abbondantemente provviste. Le brutte amano andare
con le belle per avere più occasione di trovare qualcuno che si
interessi a loro. Noi ragazzi facciamo il possibile per “incominciare”
con le piacenti, cercando di “scaricare” le racchie.
Pochi sono i ragazzi che comprendono la psicologia femminile e ci dava
tremendamente sui nervi che Giovanna occupasse il posto accanto a Daniela,
perché ci impediva l’accesso.
Un giorno qualcuno portò mezzo chilo di riso, che
fu fraternamente diviso tra tutti. Al comando “Fuoco!” di Nando, una gragnuola
di colpi fu indirizzata sul bersaglio. Non avevamo “azzerato” sufficientemente
il tiro, e parecchi colpi andarono a vuoto, centrando le veneziane e producendo
un suono come di grandine sulle finestre. Ricaricammo nuovamente la bocca di
chicchi e sparammo a raffica. Questa volta i centri furono di più, ma la maggioranza
dei chicchi finì nuovamente sulle veneziane, producendo un suono più armonico.
La terza raffica fu meno precisa: colpimmo Daniela
ed Ezio, che stava ricaricando. Per tutta risposta Ezio rispose al fuoco in
direzione di Nicola e lo colpì in pieno nell’orecchio. Nicola non lasciò
passare l’affronto in silenzio e sparò una raffica. La grandine si fece di
nuovo sentire. Tralasciammo la testa di Giovanna e ci unimmo al bombardamento
su Ezio, rinforzato da Daddo e da Nando. Sandro,
detto anche “il Secco” era il nostro migliore cecchino. I suoi colpi raramente
mancavano il bersaglio. Ezio fu costretto ad arrendersi, per mancanza di
munizioni, dopo essersi ripulito da numerosi chicchi, misti a sputo, in faccia
e sulla camicia.
Quando Berta entrò in classe
si sentì uno strano scricchiolio sotto le sue scarpe.
La spiegazione era tremendamente noiosa: Cicerone
è passato alla storia come il migliore oratore latino, ma a distanza di duemila
anni, ben pochi alunni, interessati per lo più all’ultimo successo dei Beatles,
capiscono la grandezza di quel nobile monumento dei tempi andati. Quanto
sarebbe stato meglio se Marco Antonio, invece di farlo semplicemente
assassinare, ne avesse fatto bruciare tutti gli
scritti!
Berta parlava e parlava,
il tempo non voleva passare. Dopo la spossante battaglia con il riso non
avevamo la forza di giocare a scacchi e non riuscivamo ad addormentarci a causa
di Berta. Fu allora che Romolo afferrò in silenzio i libri di Ezio e li fece volare dalla
finestra. La nostra classe era al pian terreno, ed i
libri non subirono alcun danno. Ezio andò in bestia. Si mise a bestemmiare in
direzione di Romolo e ad agitarsi nervosamente sulla sedia. Berta decise che i
movimenti erano dovuti all’interesse per Cicerone e all’impazienza di essere
interrogato ed esaudì il desiderio. Ezio dapprima si schermì, ma incitato da
alcune voci vicine: “Ezio-Ezio-Ezio...”, fu costretto,
suo malgrado, ad alzarsi e ad andare alla lavagna. Fece scena muta a quasi
tutte le domande sulla lezione precedente. Berta gli dette la
sufficienza premiando, se non il sapere, almeno la buona volontà.
Ezio era un buon amico
con tutti, meno quando lo facevano andare in bestia, cosa che succedeva
abbastanza spesso. Buon giocatore di calcio, nel ruolo di mezz’ala, si faceva
onore a bigliardino ed era, con il Secco, l’indiscusso campione a flipper. Era
anche il più basso della classe e, per via della statura, il più complessato.
Amava raccontare delle sue conquiste amorose con
ricchezza di particolari, per lo più inventati. Lo prendevamo in giro spesso,
ma senza esagerare, perché era un alunno diligente e faceva comodo
accattivarsene le simpatie. Era anche uno dei Veterani e fu tra i primi a
prendere la patente. In Quinto girava spesso in lambretta e scorrazzava qua e
là per la città. Gli piaceva particolarmente accompagnare a casa le ragazze,
per farsi vedere.
Ezio era uno dei tre Fascisti della classe ed anni addietro qualcuno gli aveva appiccicato il
soprannome “Minifascio che cammina”, ma un soprannome
deve essere una cosa corta e facile da pronunciare. Quando studiammo in
Biologia le scimmie, apprendemmo lo strano comportamento sessuale delle stesse
e qualcuno fece notare che esisteva una forte rassomiglianza tra Ezio ed il mandrillo. Inutile dire che
quell’appellativo gli rimase appiccicato da allora in poi.
In città c’erano tre o quattro posti
dove si poteva giocare a bigliardino. Uno era vicino alla scuola ed era
conosciuto come “il buco”; un secondo, vicino a casa mia, conosciuto come “il
fantasma”, soprannome dato al proprietario, un vecchietto ossuto che sembrava
più di là che di qua. Tutti i sabati ci ritrovavamo al buco appena finite le
lezioni e, per un paio d’ore, giocavamo. Giulio era uno dei migliori difensori
della scuola, il Secco ed il Mandrillo ottimi
attaccanti. Ognuno metteva in cassa un po’ di soldi e
giocavamo finché non finivano, in tutto non meno di dieci partite. A volte
facevamo a “chi perde paga” e sfidavamo quelli della B, giocatori assai meno
bravi, così facevamo lo stesso numero di partite senza spendere un soldo.
Avevamo stabilito delle regole universalmente accettate e chi voleva giocare
con noi doveva starci, altrimenti non era considerato
un giocatore del nostro livello.
Quell’Inverno alcuni amici del Secco affittarono
uno scantinato per andare a ballare i sabati sera. Ognuno portò qualche
“ricordino” per abbellire le pareti; fu rimediato un vecchio giradischi,
dischi, panche e cuscini. I soci pagavano una certa somma mensile per
l’affitto; accettavamo ospiti solo se portavano donne o qualcosa da bere.
Una domenica, mentre pranzavo con i miei, venne su
Michele, con un cappottone abbottonato fino al collo. Chiesi il permesso di
alzarmi e lo feci entrare in camera mia. Mia madre si offrì di appendere il cappotto, ma Michele si schermì... “Grazie, ma sono solo
venuto a chiedere una spiegazione, non voglio disturbare...”
Appena soli mi chiese se
poteva lasciare fino a sabato un “senso unico”. Non
avevo capito. Fu allora che Michele si sbottonò il cappotto e mi fece vedere un
segnale stradale con la scritta “senso unico”, che lo irrigidiva dai ginocchi
al collo. “è per il club” , spiegò.
Mio padre entrò in camera per invitarlo a restare
con noi a pranzo. Michele chiuse rapidamente il cappotto e si scusò, uscendo.
Il “senso unico” fu piazzato sul corridoio che dava al gabinetto del club,
sulla cui porta trionfava un “posteggio”.
Una mattina piovosa andando a scuola trovammo un gattino abbandonato, che cercava di ripararsi in
un portone. Lo infilammo in un cappotto e lo contrabbandammo in classe. Il
gattino si appisolò vicino al termosifone e non fu notato da nessuno per un
paio d’ore. Ma anche i gattini mangiano e lui
incominciò a miagolare debolmente. Romolo gli allungò un pezzo di cornetto
sottratto ad Emilia. il micio
non sembrò gradire. Nicola si impadronì con destrezza
di un panino col salame (sottratto ad un’alta ragazza, ovviamente) e ne passò
un po’ a Romolo. Il resto se lo mangiò lui. Il gatto sembrò maggiormente interessato:
leccò coscienziosamente il salame, il panino, il dito e, poi addentò con
soddisfazione quest’ultimo. Romolo urlò di dolore ed
il micio, impaurito più di lui, saltò dalle gambe e scappò in direzione della
porta... in quel momento entrò... Berta. Il gatto le sgusciò tra i piedi e si
dette alla fuga. Berta per poco non ci rimase. Si sedette in silenzio, scrisse
una nota sul registro di classe, aprì quello personale ed
incominciò ad interrogare a casaccio.
Dopo il quinto impreparato quasi scoppiò in
lacrime ed uscì in direzione della presidenza.
Il preside era un tipo alto, occhialuto, con i
capelli allisciati con la crema, e sordo come una campana. In onore del famoso
personaggio dantesco era chiamato il Sordello. Mugugnava sempre frasi incomprensibili ed ascoltava con una
mano sull’orecchio sinistro. Nel destro aveva un apparecchio, che non sembrava
molto efficiente. Camminava, zoppicando per una recente frattura e procedendo
dondolava a destra ed a sinistra.
Il Sordello entrò con
Berta ed il silenzio piombò in classe. Berta cominciò
a raccontare la storia del gatto, protestò contro la continua disattenzione,
“Salvo poche eccezioni –vero-...”, il basso livello
dell’intero corso e specie della nostra classe, l’assoluta mancanza di
disciplina, eccetera eccetera...
Il Sordello ci chiese se
“Mmm-mmm avevamo mmm-mmm
spiegazioni mmm-mmm da dare mm-mm-mm”. Nando fu abbastanza sfrontato da
rispondere che le lezioni erano noiose, lunghe e che il sistema didattico era decrepito. Il mugolio del Sordello
continuò per un buon quarto d’ora: “Mmm, mmm” e “Mmm”. Il gattino ritrovò la strada di casa e si affacciò
alla porta. Sordello si rivelò anche miope, perché
continuò a mugugnare. Perfino le ragazze più disciplinate si sforzavano di
rimanere serie. Nicola aveva le lacrime agli occhi e Peppe fece un movimento
col piede per scacciare il micio. Quello, credendo che Peppe volesse giocare,
si mise ad acchiappare le sue scarpe.
Sordello sembrava molto scocciato di non essere preso sul serio, nel bel mezzo di un
discorso sulla disciplina, ma non capiva cosa ci fosse da ridere. Il micio
scappò di nuovo ed il Sordello
ritornò nel suo buco.
Alcuni giorni dopo le finestre a vetri della classe
furono dipinti di vernice verde opaco, per non darci
la possibilità di distrarci, guardando fuori. La classe era molto cupa.
Spedimmo una commissione di alunni per far abolire questo nuovo provvedimento.
Non ci fu nulla da fare. Nottetempo i soliti ignoti spaccarono a sassate il
vetro della finestra accanto al banco di Nando. La polizia fu invitata ad indagare e giunse alla conclusione che “ignoti avevano
compiuto un atto di vandalismo, l’indagine prosegue, per consegnare alla
giustizia i responsabili”.
La maggior parte delle scuole della città erano in sciopero per protestare contro il sistema
didattico. Noi pensammo bene di fare uno sciopero personale: rifiutammo di
entrare in classe, fino a che i vetri non fossero stati riparati. La ragione:
era Inverno ed il freddo entrava dal buco della
finestra spaccata. Per due giorni arrivavamo puntualmente a scuola, spedivamo
un paio di rappresentanti a parlare col Sordello, che
ci assicurava che la richiesta di riparazione era stata inoltrata. Verso le
dieci andavamo al buco e poi ognuno per i fatti suoi.
Due giorni dopo ripararono i vetri ed entrammo in
classe, nostro malgrado....
Filosofi
Albertino era senza
dubbio un esemplare più unico che raro nel variopinto zoo del nostro liceo. Non
che mancassero gli strani animali, specie nel corpo insegnante, ma almeno tra
noi alunni, di persone simili a lui non ce n’erano altre.
Era il figlio minore dei suoi genitori, nato
diversi anni dopo il fratello più grande, e probabilmente fu questa la ragione
per cui gli fu messo il nome di battesimo Albertino che, appena entrò a far
parte della classe, fu cambiato immediatamente nel soprannome “Albertone”, visto che era il più anziano d’età: era nato ’49, due anni
prima della della maggior parte di noi.
Albertone era piuttosto
basso di statura (non come Ezio, ben s’intende) e ricoperto di capelli ricci
letteralmente dalla testa ai piedi. Si radeva ogni mattina, ma già a
mezzogiorno aveva una barba ispida e nera, come se non si fosse raso da due
giorni. La seconda materia scolastica in cui eccelleva sopra tutti
era l’Educazione Fisica. Ai tempi del primo liceo già si cimentava nelle
riunioni regionali di atletica leggera e correva i 100 metri piani attorno agli
11 secondi netti.
Albertone arrivava a
scuola in treno, da un quartiere distante una quindicina di chilometri. Presumo
che si svegliasse molto presto la mattina, perché era sempre il primo ad
arrivare, spesso e volentieri anche un’ora prima dell’inizio delle lezioni. A
differenza della maggior parte degli alunni, che a quei tempi andavano a scuola
portando i libri legati con una cintura elastica, Albertone si presentava
regolarmente trascinandosi appresso un’enorme valigetta di pelle nera. Cosa ci fosse dentro, a parte i libri di scuola, era un mistero,
perché amava aprirla e richiuderla con un gesto veloce, degno dei suoi
risultati di atletica. Probabilmente il contenuto era variabile, a seconda delle occasioni.
Albertone era, con Giulio, il ragazzo più maturo
della classe. Dava la sensazione a volte di non essere mai stato bambino, ma
forse la sensazione era dovuta alla differenza di età, che tra i sedici e i
diciotto è molto pronunciata. Se Giulio era l’indiscussa autorità nel campo
delle Lettere Classiche, Albertone era senza ombra di dubbio
il “Filosofo” per eccellenza. Non solo
filosofo, ma, per precisare, Marxista-Leninista. E
prendeva la lotta del proletariato con la massima serietà. Mentre noi, durante
le pallosissime lezioni di Berta giocavamo a “pallette e quadratini” o ci
dedicavamo all’ameno tirassegno di chicchi di riso sulla testa di Giovanna,
Albertone apriva “il Capitale” di Carlo Marx od un libro di Marcuse e se lo
leggeva avidamente.
Per non essere disturbato nei suoi studi sedeva
all’ultimo banco, a volte con Giulio, a volte con un
altro.
Col passare del tempo Albertone cominciò ad odiare Berta, come noi tutti, ma in maniera del tutto sua
particolare. Innanzi tutto va ricordato che da sempre si era ostinato a dare
del tu a tutti i membri del corpo insegnante, preside compreso. A quelli che
facevano obiezioni spiegava, con ferratissima logica
oratoria, che dare del tu faceva parte della sua ideologia politica. Dati i tempi che correvano (si era nel 1968), la maggior parte dei
professori ci fece presto l’abitudine, meno naturalmente Berta, che non gli
scusò mai quella mancaza di rispetto “Inconcepibile!
Ai miei tempi – vero –
mammaitantavolgarità!”. Quest’odio
ideologico reciproco raggiunse il suo climax in secondo, sotto carnevale,
quando Albertone, buttato fuori dalla classe, probabilmente a causa della sua
disattenzione, uscì in compagnia della sua enorme borsa. Una volta nel
corridoio, estrasse dalla stessa una cappa nera lunga fino ai piedi, denti
fasulli da Vampiro, una bottiglia di vino rosso ed un
calice e fece... il suo ingresso trionfale in classe, declamando in direzione
di Berta un “Alla tua salute!” o qualcosa di simile e di meno ossequioso. Credo
che quella volta Albertone rischiò molto da vicino la
sospensione.
Alla fine degli anni sessanta, nell’ambito dei
giovani, non esisteva il Centro Politico. O eri di Sinistra, o eri di Destra.
Ancora meglio se di estrema Sinistra o Destra. Per noi liceali questa
presa di posizione era più che altro l’emulazione dei fratelli maggiori, già
universitari. Verso la fine del nostro Primo Liceo, a Parigi ci fu il Maggio
Francese ed all’inizio del Terzo, in Italia si era in
pieno Autunno Caldo.
La “Grande Lotta” contro Berta va vista, quindi, un po’ anche alla luce di questo sottofondo
politico, anche se probabilmente, per quasi tutti noi, era più che altro solo
una scusa per fare casino.
I nostri insegnanti erano non meno politicizzati,
anche se i doveri didattici impedivano loro di esprimere le opinioni in forma
troppo esplicita. Questa legge però non funzionava per gli insegnanti di Storia
e Filosofia. Quando spieghi le orazioni di Cicerone è
un po’ difficile farci entrare la Lotta del Proletariato, ma se la lezione si
aggira sui Tribuni della Plebe, sulla Polis greca o sulle Crociate, non è molto
difficile fare un’allusione a Carlo Marx od al
Ventennio Fascista. In Filosofia era sufficiente
citare qualche pezzo di Platone per parlare di Comunismo, e l’altra materia era
più precisamente definita “Storia ed Educazione Civica”, quindi bastava fare
una piccola aggiunta al primo articolo della Costituzione: “L’Italia è una
Repubblica fondata sul Lavoro... degli altri”. Se, poi eri dall’altra
parte della mappa politica, bastava l’Inno di Mameli: “... Dov’è la Vittoria... , ché schiava di Roma...” ecc. ecc..
All’inizio del Primo non avemmo un
insegnate di Storia e Filosofia fisso. La prima supplente stette con noi
solo per pochi mesi. Era una donnona sulla trentina, alta e ben piazzata.
Parlava con uno spiccato accento Romagnolo, strascicando tutte le esse. La sua frase preferita era “Sssciuulla
pelle degli altri...”. Non mi ricordo più in che contesto usasse dirla. Alla sua mastodontica mole naturale
andavano aggiunti anche dei lunghi capelli allisssciati
e ssscioppasssciosi, come paglia, ed
un paio di sssctivali dal tacco a ssscpillo,
alti fino al ginocchio ed allacciati sssctretti sssctretti con dei lacci passanti per una ssscinquantina di asole. Presumo che per calzare quegli
stivali (color celestino, come i vestiti che usava
indossare) si doveva alzare alle cinque di mattina. Data la spiccata somiglianza
con la compagna di Gambadilegno, fu subito
soprannominata Trudy.
Trudy era di spiccate tendenze Fasciste, e non
mancava di esprimere ad ogni occasione la sua
ammirazione e la sua nostalgia per il Duce e per il Ventennio. Spesso e
volentieri la classe (con maggioranza di Sinistra) faceva con lei delle
discussioni politiche che, ad onore della buona
educazione di quei tempi, non sfociarono mai nei toni alti.
Le tendenze politiche di Trudy sembrarono ancora
più accentuate in seguito, quando fu sostituita da un prete Gesuita (o
Dominicano, non ricordo) sulla cinquantina. Veniva a scuola in giacca e
pantaloni neri, (a differenza del Don Pucci di Religione, che vestiva
regolarmente l’Abito). Se non fosse stato per il colletto, si sarebbe
facilmente scambiato per un laico. Questo prete, di cui non ricordo il nome,
era sicuramente una persona istruitissima e molto attenta alle sue espressioni
verbali: riferendosi a Benito Mussolini, usava chiamarlo “La Buonanima”, con un
sorriso malcelato. In diretta antitesi alla precedente posizione politica di
Trudy.
Nel nostro corso c’era un altro professore di
Storia e Filosofia, che venne ad insegnare
definitivamente anche la nostra classe solo più avanti. Gavino Pau, un Sardo,
come si capisce dal nome. Aveva già passato la cinquantina ed
aveva i capelli brizzolati ed un pizzetto i cui peli crescevano a stento tra le
cicatrici di una faccia terribilmente butterata. Questa sua sua apparenza fisica determinò il soprannome di Sartana (il brutto di certi film spaghetti-western).
Sartana era un Comunista vecchio
stampo. Sembrava proprio uno dei Padri della Rivoluzione d’Ottobre. Cicatrici a
parte, assomigliava molto (anche fisicamente) a Lenin. Sartana
aveva idee pedagogiche molto liberali. Fu il primo che permise, o addirittura
promosse, il cambiamento della disposizione dei banchi in classe. Invece delle
classiche file messe di rimpetto alla cattedra, dalla quale gli insegnanti
davano le loro lezioni frontali, nelle sue lezioni spostavamo il tutto, fino a
ricavare una disposizione a forma di U, in mezzo alla quale
Sartana amava inculcarci le sue materie girovagando
qua e là nello spiazzo, a contatto diretto con tutti. La sua posa preferita era
il sollevamento parziale di un braccio con la mano aperta, a dita distese,
mignolo a parte, che rimaneva piegato in giù (credo per una forma di paralisi).
Ogni tanto questa mano si abbatteva con “forza delicata” sulle spalle di qualcuno,
per richiamare l’attenzione con un energico pizzicotto. Con lui avevamo la
bellissima sensazione di partecipare ad un seminario o
ad una tavola rotonda. Insomma ci sentivamo adulti, maturi e soprattutto
attuatori di fatto di quel capovolgimento di idee
sulle decrepite e draconiane regole scolastiche. Nel nostro piccolo, sotto la
guida di Sartana, anche noi abbiamo dato il nostro
piccolo contributo alla “Rivoluzione Studentesca”. In tutte le scuole, da che
mondo e mondo è vietato fumare. Gli insegnanti erano
tenuti a punire severamente gli alunni “beccati” nella “zona fumatori”, cioè
vicino ai gabinetti. Sartana, anche lui un fumatore,
a un certo punto permise di farlo addirittura in classe. Era un’altra forma del
comportamento rivoluzionario di quei tempi, decisamente
particolari, della fine degli anni ’60. La cosa però fu interrotta a metà del
terzo quando Sartana si accorse che il nostro
profitto nelle sue materie, in vista degli imminenti Esami di Maturità, era
diventato scarsissimo. Probabilmente aveva ricevuto un cicchetto
dal preside, che fino a quel momento aveva chiuso un occhio. Sartana ci fece un sermone sulle nostre responsabilità. Mi ricordo che tra l’altro disse, con quella sua voce baritonale
dalle o tutte chiuse dell’accento sardo: “Ma no, Nicola, ma no! ... E io passo la cicca a te, e tu passi la cicca a lei. Ma no, Giuseppe, ma no! Voi siete i migliori della scuola,
voi siete intelligenti, maturi, ma capite! Non si può andare avanti così...”. Ascoltammo il sermone in silenzio. Sartana
aveva tremendamente ragione. Ci eramavo fatti
prendere la mano un po’ troppo, trascurando i nostri doveri, ma forse se lo sarebbe dovuto aspettare. Si sa che in tutte le rivoluzioni,
i continuatori dell’opera dei “padri” ad un certo
punto mettono questi da parte e
continuano la strada in direzione diversa dalle linee ideologiche iniziali. A
noi interessava, in fondo, solo divertirci il più possibile, e passare quegli
anni frizzanti senza pensare troppo al futuro. Una cosa è certa: siamo riusciti
nel nostro intento.
Un po’ di sottofondo storico (ovverosia: da dove
siamo arrivati...)
Il Classico, va detto, era stato per molti anni
addietro una scuola di élite, ma alla fine degli anni sessanta, proprio mentre
lo frequentammo noi, perse completamente la sua posizione di prestigio. Alcuni
anni prima, con l’avvento del Cento-Sinistra e la
salita dei Socialisti al governo era stata fatta la riforma didattica, che poi
si rivelò un totale fallimento. Fino al ’63 la scuola media inferiore era
divisa in due: Le Medie vere e proprie e Le Professionali/Magistrali. Nelle
Medie si studiava il Latino, e l’indirizzo era preminentemente letterario.
Andavano alle Medie i rampolli della borghesia, quelli che, per intenderci,
sarebbero andati poi al Liceo (Classico o Scientifico) e di lì all’Università.
Alle Professionali si studiavano, invece, i rudimenti di professioni come
Elettricista, Geometra, Ragioniere, Segretaria d’Azienda o Maestra Elementare.
Le Professionali erano considerate le sorelle povere delle Medie, ed erano frequentate
dai rampolli del Popolino Proletario o... dai più solenni somari che non
riuscivano ad arrancare alle Medie. Insomma nel Sistema della Pubblica
Istruzione c’era una divisione elitistica, remora dei tempi andati, che era
considerata dalle Sinistre Politiche una sacrosanta ingiustizia sociale. Con la
salita dei Socialisti si decise che, a partire dall’anno
scolastico ’63-’64, fosse istituita la
Scuola Media Unificata, dalla quale venne abolito lo studio obbligatorio del
Latino (tranne a lasciarlo facoltativo a partire dalla seconda, per chi volesse
andare al Liceo Classico) e con l’aggiunta di uno studio più serio delle lingue
vive (Inglese e Francese) a discapito delle lingue morte. La riforma decretò, insomma la fine dell’elitismo “borghese” sul
“proletariato” ed un indirizzo meno filosofico-letterario e più tecnico ed
adatto ai tempi moderni.
La classe dei nati nel ’51 fu l’ultima a
frequentare la Vecchia Scuola Media. Ciò significa che quando arrivammo al
Quarto Ginnasio avevamo già tre anni di Latino alle spalle. Per quanto riguarda
lo studio delle Lingue Moderne, meno della metà aveva fatto Francese, gli altri
Inglese. Comunque al Classico le Lingue Moderne si studiavano solo al Ginnasio.
A partire dal Primo Liceo il Greco, il Latino, la
Storia dell’Arte e la Filosofia non lasciavano posto a quelle amenità, e questo
spiega il perché gli Italiani al di sopra della cinquantina non sanno
l’Inglese. Sarebbe più giusto dire che gli ‘Italiani
che contano – sopra i cinquanta’ (cioè
quelli provenienti dal Classico) l’Inglese non l’hanno mai studiato.
Parecchi genitori della media borghesia, abituati
ancora a considerare il Classico “La Scuola per Eccellenza”, furono parecchio
preoccupati di questo cambiamento e, chi poté, fece
saltare un anno ai rampolli, per aggregarli anzitempo alla Vecchia Scuola
Media, in vista del Classico. Nel caso più prosaico della nostra classe,
avvenne che diversi ragazzi (Sandro, Peppe, Michele, Pierluigi e Amedeo)
fossero della classe ’52, più giovani di un anno della media.
Nel sistema didattico di quei tempi, poi, chi non
riusciva a superare le difficoltà degli studi, non passava ad
un istituto professionale, ma veniva bocciato e ripeteva l’anno. La cosa poteva
accadere anche alle medie inferiori, ma nel caso nostro avvenne soprattutto al
Ginnasio, a causa della Zona. Fatto sta che in Primo Liceo lo scarto di età
variava di tre anni, da Albertone (nato nella Primavera del ’49) ad Amedeo
(Primavera del ’52).
La Zona era “La Professoressa” con la “P” maiuscola
del Ginnasio. Fu lei che determinò la composizione ed
il carattere della nostra classe. Sarebbe meglio dire che fu lei ad attuare
quella “selezione” che ridusse il numero delle ragazze rispetto a quello dei
ragazzi, e cristallizzò quella che fu senza dubbio “La classe più casinara
della storia dell’Istituto”. Con la Zona eravamo stati sotto pressione, specie
disciplinare. Quando arrivammo al Primo Liceo, la pressione esplose (in faccia
a Berta, purtroppo per lei, che non se lo sarebbe – vero- mai aspettato –vero-).
Al nostro arrivo dalle
Medie, la Zona era già una leggenda. Donna d’acciaio. Di media statura, sulla cinquantina,
aveva il segno di una cicatrice da labbro leporino che le deturpava il labbro
superiore, conferendole un aspetto leonino. Non alzava mai la voce. Sapeva
farsi rispettare senza averne il bisogno: bastava che ti guardasse un attimo
dritto negli occhi per farti smettere immediatamente qualunque fesseria stessi facendo in quel momento. Sia detto ben chiaro, con lei si
rigava dritto e si studiava non solo per paura, ma perché era un’insegnante
preparatissima. Basta pensare che riuscì a far piacere
anche a Daniel, che con le lettere non aveva la minima confidenza, quell’immane
mattone della Letteratura Romantica Italiana, che sono “I Promessi Sposi”.
La Zona era una di quelle che credeva nella
missione di insegnante. Quella sua, in particolare era
di “selezionare” i ragazzi e le ragazze provenienti dalle Medie e di portarli a
farsi onore nel Liceo Classico “di una volta”. La Zona
si dedicava alla sua missione con la massima coscienza: ogni due anni prendeva
un Quarto Ginnasio nuovo
e ne bocciava, anzi “trombava”, come si diceva allora, un terzo
della classe, tutti quelli che lei riteneva “non maturi” a sufficienza per
continuare al Liceo. Intendiamoci: “Maturi” per la Zona non significava
necessariamente “intelligenti” o “secchioni”. Come poi
riuscisse nell’arte di distinguere le future capacità dei quattordicenni era un
mistero simile all’arte dei Giapponesi di distinguere il sesso dei pulcini. A rigor di logica,
essendo stata l’insegnante di Lettere della classe dell’anno precedente, non sarebbe dovuta toccare a noi, ma a quelli di un anno sotto
di noi, ma il caso volle che la Zona, disgustata dalla Riforma Didattica,
decise improvvisamente di non continuare ulteriormente la sua missione coi i
ragazzi provenienti dalla Media Unificata, ed invece di “prendere sotto la sua
egida” in Quinto proprio la nostra classe, per portarla agli esami di
Ammissione al Liceo, con gran rammarico del Daddo e
di altri due compagni che, “trombati” dalla Zona in quarto, se la ritrovarono,
loro malgrado, due anni dopo, in Quinto. La Zona aveva le sue teorie, una delle
quali era che le ragazze erano “intrinsecamente” più immature dei ragazzi. Il
risultato fu che ai nostri esami di Quinto fece un’ecatombe specie del sesso
debole, ma non solo: Paolo, della classe ’52, che aveva saltato un anno ed era
stato il migliore della sua classe agli esami di Terza Media, fu solennemente
bocciato come “immaturo” in Quinto, cosa che non gli impedì, poi, di farsi onore alla maturità, con un anno di ritardo.
C’è chi sostenne che la Zona facesse delle
preferenze ingiustificate ed avesse le sue simpatie.
Una di queste presunte simpatie era il Daniel. Decisamente portato per le Scienze, era arrivato al Classico
per sbaglio, anzi per “prigionia coatta”, cioè per imposizione paterna (il
padre era un altro di quelli che al Classico elitistico dei vecchi tempi ci
credeva ancora). Il Daniel era completamente negato
per le Lingue, sia morte che vive, specialmente per l’Inglese. Fu ammesso agli Esami di Quinto per il rotto
della cuffia, con quattro insufficienze: Italiano, Latino, Greco e,
naturalmente, Inglese. Non si sa come ebbe un colpo di fortuna agli scritti e
si destreggiò sufficientemente agli orali, tranne in
Inglese, dove fece semplicemente “scena muta”. Fu così, ingiustamente, promosso a Giugno, per voto di Consiglio. Si disse perché
era il “coccolino” della Zona. Se c’è stato del vero, certamente la Zona fece
tutto di testa sua, come al solito, d’altronde. Questa
immane ingiustizia fece andare in bestia non pochi compagni, presenti agli
Orali, specie Pierluigi che, rimandato a Settembre, si ripromise di pestarlo
ben bene “per dargli una lezione”. Al Daniel fu
consigliato da alcuni compagni di stare alla larga da Pierluigi, almeno per
quell’Estate. Pierluigi poi fece pace in primo, quando entrambi parteciparono
attivamente alla lotta contro Berta, Daniel aiutò un po’ tutti in Chimica ed, alla fine dell’anno, fu rimandato in Italiano e Greco
(gli abbonarono il Latino). A dir la verità c’era una
piccola nicchia letteraria in cui il Daniel eccelleva: lo scrivere in versi. Un
difetto che non gli è ancora passato. In Quinto Ginnasio aveva scritto un’ode
sulla forma del naso dei suoi compagni, in Primo aveva vinto la gara di
“poesia” con una serie di sonetti romaneschi contro la burocrazia scolastica,
che fecero sbellicare di risa compagni e professori e, finalmente in Secondo,
per vendicarsi di essere stato rimandato in Italiano, compose una lunghissima
parodia dell’Inferno Dantesco, mettendo tutti i compagni e professori nel loro
girone. Ogni tanto leggeva in classe le ultime terzine Dantesche create, mentre
ognuno aspettava il suo turno ed il suo girone.
Quest’opera sublime andò, sfortunatamente, perduta quando alla fine del Secondo
(facendo un’altra delle sue regolari coglionate) “prestò” l’unica copia
esistente al Sartana, che, naturalmente non gliela
restituì mai più.
Eh sì, perché il Daniel era fatto così: viveva in un mondo scientifico-intellettuale
tutto suo, uscendosene spesso di fronte ai compagni ed ai professori con
elucubrazioni filosofeggianti ed incomprensibili, non solo per i compagni, ma
spesso e volentieri, per lui stesso. Ad ogni sua
“uscita” veniva “severamente ammonito” da Giulio con un solenne: “Apaace!”. Qualche
volta la smetteva subito, qualche volta no, nel qual
caso si beccava un “APAAAAAACE!!!!” da tutta la classe in coro. E fu così che
il suo soprannome rimase “Apaace!”....
Il Daniel non è stato l’unico a
comporre opere in versi sulla scuola. Questa capacità fu, infatti, condivisa con altri tre o quattro ragazzi del corso.
Ovviamente fu espressa soprattutto in forma di graffiti sconci, scritti sulla porta interna del gabinetto (dei ragazzi). Questa
volta dobbiamo ringraziare il falegname che ha costruito la carpenteria
dell’istituto: appena un ignoto fece il primo tentativo di lasciare un ricordo
delle sue azioni in quel luogo recondito, scrivendo a penna biro il classico
verso: “In questo luogo ameno e giulivo/ho fatto uno [censura] che pesa un
kilo”, fu subito chiaro che la vernice color verde acqua non
impediva affatto, anzi aiutava, a tenere l’inchiostro (di solito in quei
luoghi ameni si usava mettere una pittura ad olio, che costringeva a grattare
la penna profondamente nel legno). La risposta al versetto fu immediata. Senza
scendere in particolari, dirò che il peso aumentò in serie esponenziale, finché
qualcuno decise di ammonire l’esagerato. Così l’ode prese la piega di un battibecco
in versi a cui si unì più tardi, ovviamente, anche il
Daniel.
Contemporaneamente a queste elucubrazioni di
carattere matematico-chimico in versi, scritte in ben ordine in colonna sulla
sinistra della porta, sulla colonna di destra ignoti
presero a compilare il “Bignami” di Storia della Filosofia: un memorandum sulle
verità assolute enunciate dai filosofi greci. Il distico d’apertura non poté
essere se non il famosissimo: “Lo disse un giorno Socrate, lo confermò
Santippe/È meglio
una [censura] di centomila [censura]”. Seguì un riassunto dei Presocratici, non
meno famoso: “Lo disse Anassimandro, lo confermò Zenone/La
forma della Terra è simile a un [censura]”. Gli altri filosofi seguirono
a ruota, fino ad aggirare la maniglia e continuare più sotto. In pochi mesi,
insomma, la porta interna del cesso fu letteralmente
sfruttata da cima a fondo. In caso di “bisogno” ci si poteva comodamente sedere
e leggere per una mezz’oretta quelle amenità letterarie, scritte in stampatello
su quattro colonne ordinate. L’amena lettura,
purtroppo, fu censurata ad un certo punto dal preside
che, dovendo urgentemente esplicare i suoi bisogni fisiologici, dopo aver fatto
il suo solito cicchetto settimanale in classe nostra, entrò impunemente nei
gabinetti degli alunni, invece che in quello dei professori, e scoprì l’opera
letteraria. Il giorno dopo il bidello verniciò a nuovo la porta, con una
vernice ad olio super-resistente, sulla quale fu
impossibile scrivere i graffiti, senza rompere le penne. Peccato...
Ritornando a bomba, cioè a Berta, va menzionato
che le capacità di “verseggiatore” del Daniel gli
procurarono dei problemi anche con lei. Berta, infatti, tra le tante
fissazioni, aveva anche quella di essere fermamente convinta di saper leggere
la metrica latina meglio di qualunque altro essere umano. Quando incominciammo
a “studiare” (si fa per dire) l’Eneide di Virgilio, infatti, ci toccò di
sorbirci il quotidiano quarto d’ora di lettura in metrica di Berta. Ligi al
detto di “non svegliare il Nando che dorme” la
lasciavamo fare, concedendole qualche minuto di narcisistico autocompiacimento
nel recitarci, anzi nel recitarsi, quegli esametri epici. Insomma, l’ora di
lettura era anche l’ora della tregua. L’esametro
epico, va ricordato, è un verso estremamente monotono,
(la miglior ninna-nanna per Nando) che suona, nel novantanove per cento dei
casi così:
Pà-parapà-parapà’- [piccola interruzione]
– parapà-parapà-parapàppa
Molto raramente, però, il verso fa eccezione e si
recita facendo due piccole interruzioni, invece di una
sola.
Fatto sta che una volta successe che Berta si incagliasse su uno di questi rari esametri fuori del
comune. Dopo il quinto inutile tentativo di venirne a capo, Berta, tutta rossa
di vergogna, alzò gli occhi nervosamente sopra gli occhiali a mezzaluna, in
cerca dell’ispirazione. Fu allora che il Daniel fece
il più grosso errore della sua carriera scolastica: alzando umilmente la mano
per prendere la parola “osò” correggere Berta, recitando il fatidico verso
nella maniera giusta (cosa volete farci, il Daniel aveva la metrica nel sangue).
Berta non glielo perdonò mai. Da allora in poi, ogni volta che le capitò di
recitare qualche pezzo, alla fine alzava un’occhiata severa in direzione del
poveretto e chiedeva con sarcastica soddisfazione “Ealora
– vero - , Daniel – vero – ho letto bene questa volta?
– vero – Mi promuovi – vero?”. Non è da escludere che
Berta si fosse legata al dito il fatto di essere stata “pizzicata” nel Sancta
Sanctorum delle sue lezioni di Latino. Comunque questa non fu la causa per cui,
alla fine dell’anno il Daniel avrebbe dovuto essere
rimandato nelle sue materie. A parte la capacità di leggere la metrica, infatti tra il Daniel ed il Latino-e-Greco non c’era la
minima simpatia reciproca.
Dotti, Dottori e... figli
I pochissimi, e giustamente esigenti, lettori di questa
storia (per dirla alla Manzoni) vorranno ora perdonare l’umile cantastorie
della stessa, se egli si vede costretto, suo malgrado, a fare un piccolo
excursus di carattere veramente... preistorico. Si spera che ciò possa aiutare ad inquadrare meglio alcuni componenti della nostra classe.
Se, poi, il cantastorie dovesse aver fallato nel suo giudizio, al rigoroso
lettore resta sempre il diritto di replicare con il sonoro “APAAACE” d’uopo.
Il nostro quartiere in riva al mare fu fondato
agli inizi del secolo ventesimo in una zona di bonifica, per permettere alla
Borghesia cittadina di allora di andare a “fare i bagni” nella stagione estiva.
Per quasi mezzo secolo la popolazione stabile si aggirò su non più di ventimila
anime (in inverno), per quintuplicarsi temporaneamente nei mesi di
Luglio-Agosto, con il sopraggiungere dell’invasione dei bagnanti, buona parte dei quali avevano una “casa per le vacanze” di proprietà o
da dare in affitto. Le cose cambiarono drasticamente agli inizi degli anni ’60,
con la costruzione del nuovo Aeroporto Internazionale, distante una decina di
chilometri. Essendo il nostro quartiere ormai popolato in buona parte dalla
piccola e media borghesia, fu preso d’assalto dai nuovi venuti, ed in capo a quattro-cinque anni la popolazione stabile
triplicò o quadruplicò. Questo succedeva più o meno
quando la classe ’51 finiva le Elementari. In origine il quartiere si estendeva
per due o tre chilometri in lunghezza in riva al mare, su
cinque o sei file di case, raggiungendo in profondità non più di mezzo
chilometro. La Via del mare, proveniente dalla città, lo tagliava in due parti,
orientale ed occidentale. Ancora alla fine degli anni
cinquanta la maggior parte della popolazione medio-borghese era
concentrata nella zona est, tra il mare e la ferrovia, che ne era il confine
naturale settentrionale, mentre la zona ovest, con spiagge meno curate ed attraenti, era occupata da una popolazione meno abbiente.
Ai suoi confini estremi c’era una zona di case abusive, costruite al di fuori
del Piano Regolatore e popolata di manovali, braccianti e dai cosiddetti
“Sardegnoli”. Quando la nostra classe
incominciò a frequentare le Medie Inferiori, dunque, la maggior parte di noi
faceva parte di famiglie di nuovi immigrati. Pochi
erano quelli nati nel quartiere: solo Emilia, il
Daniel, Sandro “il Secco” e forse Giuseppe. Va ricordato che il nucleo
originale degli “indigeni” era formato dai discendenti degli operai che avevano
fatto la bonifica agli inizi del secolo. Questi pionieri erano
tutti originari delle Romagne. Alcune remore di quei tempi lontani dei nostri
bisnonni si possono trovare ancora in certi nomi come “Viale dei Romagnoli”,
“Piazza dei Ravennati” e “Via delle acque rosse”, nonché
dal Canale dei Pescatori che segnava l’estremo confine orientale del quartiere.
Tra le due guerre alcuni pionieri si guadagnarono una certa posizione sociale,
pur senza dimenticare, almeno ideologicamente, le loro origini proletarie. Una
di queste “vecchie famiglie” era quella di Sandro “il Secco”. La nonna, la sóra Giuditta, era la proprietaria dell’unica merceria ben
avviata del quartiere. Mandò il figlio a studiare Medicina. Il Dr. Duilio, padre di Sandro, era uno dei tre medici di
famiglia del quartiere. Data la posizione sociale, stava molto bene
economicamente, ma era di idee Socialiste. Non
Comuniste, sia ben chiaro, Socialiste. Agli inizi degli anni ’60 fu, anzi molto
attivo nella politica locale, lottando per la costruzione di un ospedale che
non fu mai fatto, se non negli anni settanta. Nel nostro quartiere (si badi
bene con quasi duecentomila bagnanti nei mesi estivi), esisteva solo un attrezzatissimo Pronto
Soccorso, alloggiato in un edificio completamente inadatto. Ci si deve levare
il cappello a tutti i medici, paramedici ed infermiere
che lo fecero andare avanti così bene per così tanti anni, con l’ospedale più
vicino a trenta chilometri di distanza. Ritornando al nostro “Secco”, per lui
la carriera era predestinata. Era ovvio che dopo le Medie ed
il Classico, sarebbe andato a fare Medicina che, come tutti sanno, è una tara
ereditaria. Sandro era un buon amico con tutti. Crebbe in una casa dove non gli mancava niente. Fece le più belle Feste
della classe, ma fu educato a rispettare fin da piccolo i meno abbienti, e non
si comportò mai da snob, benché fosse il più ricco della classe. Peccato che al
secondo anno di Università se lo sia portato via un incidente stradale.
Sandro era sempre stato “il figlio del Dottore”.
In classe nostra c’erano altri due “figli di”... Insegnanti,
nella fattispecie. Eh sì, perché nel nostro “piccolo” quartiere l’élite
borghese era formata anche da alcuni “pilastri” nel campo della Pubblica
Istruzione. Uno di questi pilastri fu il padre di Michela, per tanti anni
insegnante di Italiano e Latino della sezione B del nostro liceo, mentre
Giuseppe era figlio (materno) dell’insegnante della rinomata sezione E delle Medie Inferiori e figlio (paterno) del Prof V.,
indomito pilastro didattico della sezione A del nostro liceo (anche l’eterno
vice-preside) e poi preside per molti anni, quando noi avevamo già finito gli
studi. Che Giuseppe sia diventato un insegnante di liceo non sorprende, visto
la genetica familiare. Sorprende un po’ di più che Michela sia andata a
studiare Medicina.
Come quei due figli di professori siano finiti in
classe nostra è presto detto: nel nostro liceo c’erano
tre sole sezioni. Una, la A aveva fatto Francese alle
Medie. Le altre due, la B e la C, avevano fatto Inglese. In Quarto Ginnasio
c’era anche una D (Inglese), che l’anno successivo, però, venne
sciolta e divisa tra le altre due. Se non l’avete ancora capito,
noi eravamo quelli della famosa, anzi Famigerata Sezione C. Quelli senza i
“pilastri”, con insegnanti non stabili, spesso e volentieri supplenti o di
seconda categoria. Eravamo, insomma, la bestia nera del
Liceo. Perfino la lista dei nostri cognomi non cominciava dalla
A, ma dalla G!
La povera Michela, proveniente dall’Inglese, non
poteva essere messa certamente nella B, dove insegnava il padre, e Giuseppe
anche lui finì il più lontano possibile dalla A. Questa
distanza più alfabetica che fisica dai “pilastri” non impedì certe dicerie di
favoritismo nei confronti di Michela che, essendo un’ottima alunna (anche
estremamente secchiona), si vide contestare dagli invidiosi gli ottimi voti.
Per questa ragione, e perché la nostra scuola era ormai diventata un casino, si
vide costretta a lasciare il nostro Liceo ed a
terminare gli studi in una scuola più seria, conseguendo la Maturità con il
massimo dei voti, come si meritava, senza essere tacciata di essere “Figlia di
papà”. Per Giuseppe le cose furono più facili. Essendo anche lui un rispettato
casinaro ed un alunno buono, ma non eccezionale, non
ci fu nessuno che osò tacciare il padre di nepotismo. Detto tra noi, non credo
che, conoscendo tutti molto bene il Vicepreside, Prof V., si sarebbe potuto trovare qualcuno tanto
stupido da insinuare una simile bestialità. E lo dice uno che ha condiviso con
Giuseppe otto anni sui banchi (Medie e Liceo).
Oggi come oggi le persone “arrivate” sono quelle
che si occupano di Informatica, Marketing ed Economia e Commercio
Internazionali, ma ai nostri tempi (non esistevano ancora i Personal Computers) l’élite medio-borghese era ancora formata dalle
classiche professioni liberali: Medici, Avvocati e Professori di Liceo. I
ragazzi e le ragazze delle famiglie medio-borghesi erano ovviamente indirizzati
alle professioni dei padri e delle madri. I genitori del proletariato
intelligente e della piccola borghesia, per la maggior parte arrivati dalle piccole cittadine della
periferia, sognavano ancora per i loro rampolli quella Carriera Universitaria
che era stata negata loro per ragioni di classe sociale: il loro sogno era
quello di avere un figlio “Dottore” od “Avvocato” ed una figlia
“Professoressa”. E ci mandarono al Classico, perché allora non poteva esistere
un Medico che non sapesse di Latino, e nemmeno un Avvocato che non usasse
regolarmente i termini “Sub Judice” e “Dura Lex, sed Lex”...
!!!
Non è stato, quindi, un caso, ma una questione di
genetica sociale, se la maggior parte di noi siano
diventati poi quello che i genitori avevano sognato prima. Dalla nostra classe
sono usciti, infatti, quattro medici, almeno un avvocato (la cosa si dovrebbe
controllare, ma purtroppo abbiamo perso i contatti con molti compagni) e
diversi insegnanti di liceo. Comunque lo specifico indirizzo professionale
divenne chiaro alla maggior parte di noi solo in vista della Maturità vera e
propria, visto che prima eravamo troppo occupati a divertirci a scuola, da
pensare seriamente al domani. Il destino futuro fu chiaro fin dall’inizio, solo
a tre persone: il Daniel sarebbe andato a studiare
Chimica, il Secco Medicina ed il Daddo a fare la
Carriera Militare. Il Daddo era uno dei Veterani. Trombato dalla Zona in
Quarto Ginnasio, era il figlio di un Appuntato dei Carabinieri della stazione del quartiere. A quanto pare era cresciuto in
un clima molto austero e militaresco, fatto sta che era di spiccate tendenze
Fasciste. Era attivo nella Giovane Italia, il movimento giovanile neofascista,
anche se, detto tra noi, osservato con gli occhi di un compagno di classe, era
la cosa più lontana dal “Leader” di quanto ci si potesse immaginare. Secchione, ma non particolarmente dotato, si barcamenava
alla bell’e meglio tra le ostiche e pallose materie
scolastiche. Era anche piuttosto grassottello, e soffriva di una lieve
balbuzie. Forse per questo difetto di pronuncia era anche piuttosto “imbranato” con le ragazze, tanto da beccarsi l’insinuazione
di essere un po’..., come dicevamo allora: “Sicofante” (la spiegazione del
termine segue tra un po’ ). Il Daddo però sorprese
tutti: appena liberato dal guscio del Liceo, nel quale non si sentì mai a suo
agio, andò all’Accademia Militare. Lo rivedemmo l’anno dopo, magro, senza la
minima ombra di balbuzie,
sicuro di sé e sulla via di diventare un ufficiale di carriera.
Finalmente rintracciato, ora sappiamo che è (per ora) colonnello “aT-TEnti!..., presentAT-ARM!!!”.
Un altro “Figlio di Carabiniere” era Nicola “il
Grasso”. Il padre di Nicola era un Maresciallo Maggiore, il comandante della
piccola stazione di Ostia Antica, distante cinque chilometri da noi. Il
Maresciallo P. Era una persona simpaticissima, la cui maggiore attività era
probabilmente quella di occuparsi dei piccoli problemini quotidiani di un
agglomerato di qualche migliaio di pacifiche persone, asserragliato attorno
agli Scavi Archeologici, che si estendevano in
superficie più del borgo stesso. Qualcosa di molto simile a
Vittorio de Sica nel film “Pane, Amore e Fantasia”. Quando andavamo a
visitare Nicola in casa sua, cioè nella caserma, venivamo
salutati militarmente dal Carabiniere di Guardia, cosa che ci faceva un po’
sorridere. La madre di Nicola era una persona simpatica e silenziosa, che
sicuramente amava molto il marito ed i tre figli
maschi. Nicola era il maggiore e gli altri due erano nati a... nove mesi di
distanza, uno dopo l’altro. Nicola, comunque, non ebbe mai la minima
inclinazione per il militarismo, né fu spinto dai genitori, a differenza del Daddo, a seguire la carriera del padre.
Sicofanti ed hobbies
minori
Constatato che di prendere gli
studi liceali seriamente non se ne parlava nemmeno per idea, a scuola e
dintorni occupavamo il nostro tempo nei vari hobbies dell’epoca e dell’età. I
nostri hobbies principali erano, quello di “fare casino, tanto per farlo” e, naturalmente, l’interesesse
per l’altro sesso. Tralascio momentaneamente l’argomento “Casino” che, come
avrete ormai capito, pervade tutta la nostra storia. Per quanto riguarda i
rapporti con l’altro sesso, come ho già scritto, tra le ragazze ed i ragazzi della nostra classe non ci sono stati romanzi
veri e propri, tranne la breve eccezione di Sandro e Daniela, che in Primo
stettero insieme per qualche settimana. Le ragazze “bone”, cioè Daniela,
Gabriella e... Gabriellina, preferivano gli Universitari. “Giacoma” e Giovanna
(le racchie), sembravano indirizzate a diventare
vecchie zitelle, e per Emilia, che cadeva nel mezzo, si farà un discorso a
parte.
Per quanto riguarda i ragazzi, in società quello
che contava di più non era la bellezza fisica in se stessa, ma la dimostrazione
di saperci fare con le donne, in genere di uno o due anni minori di età. La
maggior parte di quelli che avevano la ragazza fissa, se la trovarono al di
fuori della nostra scuola o mantennero la riservatezza: si sapeva che la
ragazza c’era, ma la si vedeva di rado in giro. Fu certamente così per i due “più bei fichi riconosciuti”
della classe, cioè Romolo e Giulio. Ma anche Daniel, che era considerato
altrimenti un imbranato, se la faceva in segreto con
una ragazza della grande città. Altri ragazzi erano, invece, play-boys
riconosciuti. Avevano molte ragazze, ma nulla di
troppo serio. Quando la ragazza c’era veramente, nessuno mise il naso negli
affari privati del prossimo. In certi casi, poi, non era consigliabile fare
apprezzamenti sarcastici sull’argomento, se non si cercavano grane. Questo
discorso valeva principalmente per le ragazze di Nando.
Noi ragazzi amavamo moltissimo prendere in giro
gli altri sulle loro performances amorose, vittoriose o meno, oppure inventate
che fossero, come nel caso di Ezio il “Mandrillo” che, poveretto, era
bersagliato quasi quotidianamente dai nostri sollazzi. Ma
se lo meritava certamente. Alcuni soggetti della classe, come Amedeo e
soprattutto il Daddo, erano stati amichevolmente
bollati di tendenze, come dire... diverse. Nulla di vero, naturalmente, ma chi
non dimostrava di saperci fare con le donne, era automaticamente catalogato
dalla parte opposta, cioè in quella dei “Sicofanti”.
L’origine di questa strana terminologia va
ricercata in uno dei Dialoghi di Platone, il “Critone”,
che avemmo la sfortuna di sorbirci a scuola: Berta
tradusse il termine con la parola “delatori” e ne spiegò così il profondo
significato: “L’Attica –vero- era una terra povera –vero- la cui unica
ricchezza agricola erano – vero – gli alberi di Fico – vero -. Atene aveva
messo una tassa sull’esportazione di questi frutti – vero -. Per non pagare le
tasse, i contadini del posto facevano – vero – contrabbando di fichi. Il Fisco
Ateniese, quindi, mandava dei delatori, fare la ricerca ed
a scoprire i contrabbandieri. Questi delatori – vero – erano, appunto, - vero – “quelli che andavano alla ricerca/scoprivano i fichi,
cioè i Sicofanti”.
La definizione ci piacque
così tanto –vero – che da allora in poi chi non ci
sapeva fare con le donne divenne “uno che va in cerca dei fichi”, ovverosia un
“Sicofante”.
Oltre agli hobbies principali non ci mancavano,
però, anche hobbies minori, quali la politica e... le mostre. Prendendo come
punto di riferimento l’anno scolastico ’68-’69, cioè
quando noi eravamo l’ormai ben noto e “Famigerato II C”, La nostra classe era
composta da membri di tutta la gamma politica. All’Estrema Sinistra c’era
Albertone, il Maoista; seguivano due o tre ragazzi di Centro-Sinistra, alcuni
“Democristiani” e i tre Fascisti di estrema Destra: Romolo, Ezio “il Mandrillo”
e Daddo. Gli altri erano “simpatizzanti” che non si
sbilanciavano troppo apertamente: Giulio era di tendenze vagamente Liberali e
Michela si dava da fare nell’Azione Cattolica, ma a dire il vero le donne della
classe non espressero mai un interesse per l’argomento Politica, che pure in
quegli anni era così attuale. Pare che la maggior parte di loro seguisse vagamente
quelle dell’uomo con cui stavano in quel momento (se ce n’avevano
uno). Non vorrei essere tacciato di misoginia, ma con le ragazze, si sa, noi
ragazzi preferivamo parlare di tutt’altri argomenti...
Le altre classi della scuola, e della sezione in
particolare, avevano idee politiche più cristallizzate: il III C, per esempio
era di spiccate tendenze rivoluzionarie. Fu quello che portò avanti la ‘lotta
di classe’ nel nostro liceo, almeno fin a quando noi gli prendemmo la mano con
il casino “in sé e per sé”. Quelli del I C, invece erano una classe estremamente conservativa e secchiona, che non fece affatto
onore al nome della sezione. Il V C, infine era di nuovo una classe
rivoluzionaria, donne comprese, con le quali alcuni di noi avevano ottimi
rapporti di amicizia. Noi ragazzi specialmente eravamo tenuti in palmo di mano
dalle ragazze del V, e facevamo un po’ i galletti. Ci sarebbe molto da scrivere
su Visca, la “Margutte” del
V C, (anche la più rivoluzionaria), ma inutile perdersi a fare la storia di
tutta la sezione. Meglio limitarsi alla nostra classe. Va ricordato che con la
sezione B, di tendenze conservative, non avevamo molti rapporti, tranne le
sfide a bigliardino (dove li suonavamo regolarmente). Con la A,
poi, non c’erano rapporti affatto. Questo perché provenivano dalle classi di
Francese e, quindi non c’erano tra noi ex-compagni di classe in comune. Anche
quelli della A, credo, erano per la maggior parte
bigotti e conformisti.
Conformisti, forse, ma qualche idea buona ce l’ebbero anche loro. Una di queste fu la “Mostra
dell’Hobby”. Alcuni alunni delle altre due sezioni, con la collaborazione di
alcuni membri del loro corpo insegnante e la benedizione del preside, un bel
giorno indissero la prossima apertura di una mostra, nella quale tutti gli alunni
dotati di tendenze artistiche furono invitati a presentare le loro opere:
quadri, collages, statue ed
opere poetiche. La mostra ebbe un successo strepitoso,
grazie ai quadri ed alle sculture di alcuni alunni della B, che erano veramente
dotati di capacità artistiche. Le poesie, invece lasciavano piuttosto a desiderare. Erano per
lo più brutte copie di certi autori romantici che ci sorbivamo nelle lezioni di
Italiano. La nostra sezione decise all’inizio di boicottare la mostra, perché
era stata organizzata dai “bigotti” della scuola, ma
fu convinta proprio dal Sartana a parteciparvi:
“Dimostrate a tutti che voi siete i migliori! Vi hanno lanciato una
sfida. Fategliela vedere!”. Albertone ed il Daniel raccolsero il guanto.
Un bel giorno la palestra, già ben allestita a
mostra (tra quadri ad olio e poesie sulle pareti e sculture di terracotta sul
linoleum), subì l’occupazione proletaria: Albertone vi trasferì una mezza
dozzina di sculture moderne composte da enormi pezzi
di rami e avanzi di falegnameria (il padre faceva il carpentiere in un
ministero), completamente avvolti con nastro isolante multicolore. Queste
sculture sembravano per lo più scheletri di animali martorizzati, ed esaltavano
in netto contrasto con le fattezze Neoclassiche delle altre sculture. Erano
brutte, ma certamente molto originali. Prima di allora nessuno si sarebbe
minimamente aspettato che Albertone avesse qualche talento artistico. Delle sue
sculture non aveva fatto mai parola con nessuno.
Il Daniel non fu di meno. Si mise
di buzzo buono ed in pochi giorni produsse la classica
“Pasquinata”. Una decina di sonetti satirici in perfetto dialetto romanesco,
che mettevano in ridicolo le decrepite istituzioni scolastiche e sociali dei
tempi. Uno spiegava l’inutile ingiustizia di dare i voti, un altro invitava
scherzosamente certi professori a non vergognarsi di venire a fumare nei
gabinetti degli alunni e un altro prendeva in giro i genitori troppo protettivi
di certe ragazze. Il sonetto diceva che le ragazze di buona famiglia potevano farlo
anche... di giorno, di nascosto dai padri severi. L’idea gli era venuta da
Emilia. Figlia unica di genitori più anziani della media,
era piuttosto bassa di statura, ma niente male di fattezze. Aveva dei
bellissimi capelli corvini, lunghi
fino alla schiena. Insomma avrebbe potuto avere un certo potenziale, se non si
fosse comportata in modo così scontroso nei riguardi dei ragazzi, guardandoli
severamente dal didietro di due grossi occhialoni. Era un tipo troppo
“quadrato” per i nostro gusti. Secchiona,
matematica, di poche parole e soprattutto completamente priva di femminilità.
Questo suo carattere era molto probabilmente solo una scorza esterna, causata
dal comportamento super-protettivo dei genitori. Il padre l’accompagnava
a scuola in macchina tutte le mattine e la veniva a prendere alla fine delle
lezioni, per riportarla a casa, impedendole di unirsi all’allegra “fiumana” che
si formava all’uscita dal liceo, che era la migliore occasione (insieme alle
feste) per tutti noi di “incominciare”
con l’altro sesso.
Ad un certo punto, però, anche
Emilia fece la Rivoluzione: si mise le lenti a contatto ed un bel giorno fece
una scenata al padre, venuto a prenderla a scuola. Da allora in poi si unì alla
nostra fiumana, ma ormai lo stigma di “noli-me-tangere” ce l’aveva
già, e fino alla fine del Liceo non glielo tolse più nessuno.
Quando arrivò il giorno
della premiazione della Mostra dell’Hobby, il Sartana
aveva evidentemente fatto bene il suo ‘lavoro di corridoio’ con gli altri
insegnanti, perché i giudici accettarono con filosofico umorismo i sonetti del Daniel, assegnandogli il Premio Poesia. Il Premio
Pittura venne assegnato ad un alunno della B, mentre
il Premio Scultura finì agli animali martoriati. E qui Albertone fece la sua
Dimostrazione Proletaria. Rifiutò di accettare la pergamena, contestando il
riconoscimento ‘borghese’. Non solo, ma, imitando due atleti americani delle
ultime olimpiadi, alzò il braccio sinistro, guantato
di nero, a mo’ delle Pantere nere, mettendo in imbarazzo alunni, genitori ed
insegnanti, Sartana compreso, che lo convinse poi ad
accettare il premio, spiegandogli che “Ma no, Albertino, ma no! Hai dimostrato di essere il migliore, Va benissimo, ma queste scene
non c’entrano niente con la lotta Proletaria!”. Il Sartana,
laureato anche in Psicologia, sapeva che Albertone, anni dopo, avrebbe guardato
con nostalgia quel pezzo di pergamena ritrovato nel cassetto, unico testimone
dei bei tempi andati.
E parlando dei bei tempi
andati, non si può se non ritornare a Berta che, ormai a sessant’anni passati,
ai “tempi di una volta – vero -, quando c’era più rispetto” ci credeva
veramente. E credeva veramente anche alla Medicina di un tempo. Benché la cosa non fu mai verificata in profondità, da certe sue frasi
frammentarie, venimmo a capire che la Nostra aveva avuto una carriera eroica. A
quanto pare proveniva da una famiglia molto benestante o comunque molto
rispettata del nord. Pare che il padre fosse stato un alto magistrato. Facendo
i conti dell’età, probabilmente da prima dell’Era Fascista. Berta si era
laureata in Lettere Antiche negli anni trenta, ma non aveva avuto bisogno di
insegnare, grazie alla sua posizione sociale. Si era quindi dedicata ad opere di beneficenza o a qualche altra forma di
volontariato per molti anni. Pare che abbia fatto la Crocerossina in Africa
Orientale e poi, nella Campagna di
Russia sia stata addirittura la direttrice di qualche ospedale militare.
A furia di stare in mezzo ai dottori si era fatta una cultura medica molto approssimativa, ma atrettanto
efficace (almeno a parole). Per nostra fortuna non ebbe mai occasione di
mostrarci le sue qualità di infermiere, ma una volta
se ne uscì con una perla molto interessante: Il Daniel, che portava anche
allora gli occhiali, un bel giorno si stava letteralmente addormentando. Tra un
passo di Cicerone ed un altro, provò l’impellente
bisogno di stropicciarsi ben bene gli occhi. Berta lo osservò dal di sopra degli occhiali a mezzaluna e gli dette la sua
lezione di Medicina: “Ealora, Daniel – vero – Lo sai qual
è l’unica cosa con la quale – vero - si possono stropicciare gli occhi?”. “Con
una garza sterilizzata...?” Azzardò il poveretto.
“Sbagliato – vero - !” Ribatté Berta. E poi aggiunse trionfante, con il suo
classico sorrisetto idiota: “Solo con i GOMITI!!!”. Non si può negare a Berta che, almeno per
quella volta, avesse reso
l’idea in modo efficace.
Berta non fu l’unica ad
esprimere pareri ‘medici’ gratis. Questa storia ce l’ha
ricordata Emilia:
Trudy una volta chiamò alla lavagna Nando, per interrogarlo.
Ovviamente lui non era preparato. Si inventò una
strana ferita che si era procurato il giorno prima e per la quale aveva passato
il pomeriggio dal dottore. Trudy allora se ne uscì con una ricetta di altri
tempi che prevedeva l'utilizzo di quella specie di laniccia
mista a ragnatele che si deposita sotto il letto e che sarebbe stata
sicuramente un toccasana, salvo poi tacciare la padrona di casa di non essere
all'altezza del suo compito. Speriamo che Michela,
Amedeo, Ezio e Giovanna abbiano appreso all’Università sistemi terapeutici più
aggiornati di quelli di Berta e di Trudy!
Nel nostro Liceo non ci furono mai attività
culturali extra-scolastiche organizzate dalla scuola. Non so se questo fosse un
fatto legato al Sistema Scolastico di quei tempi, o perché il nostro era un
insignificante Liceo di periferia. Gite scolastiche, per esempio, non se ne
fecero mai, ed anche le ‘visite di classe’ a musei o mostre furono avvenimenti
più unici che rari, avvenuti grazie all’iniziativa di qualche insegnante di
larghe vedute. La cosa, a pensarci bene, sorprende un po’, se pensiamo che
l’Italia ha (secondo una statistica dell’UNESCO) non
meno di un terzo dei beni culturali mondiali! Durante gli anni di scuola non
partecipai mai ad una scena come quella che mi capitò
alcuni anni fa in un museo di Parigi: in una sala vidi una ventina di bambini
dell’asilo, non più di quattro o cinque anni, seduti all’indiana, a braccia
conserte sul parquet, di fronte ad un quadro ad olio gigantesco, che occupava
tutta la parete. Mentre la maestrina dava le spiegazioni sull’opera, quei
piccoli ascoltavano in religioso silenzio. Un paio di loro
fecero anche… domande!
La nostra classe, in cinque anni di liceo, fu
portata una sola volta dall’insegnante di Storia dell’Arte a visitare il Museo
d’Arte Moderna. Un’altra volta andammo in gruppo a
vedere una mostra di tecnologia, dove gli Americani avevano esposto un modello
del modulo Apollo (si era negli anni dei voli sulla Luna). L’unico insegnante
che ebbe un’iniziativa personale fu il Paguro. ‘Bernardo l’Eremita’ faceva l’insegnate solo temporaneamente. Pare, infatti, che fosse
uno scienziato ricercatore, al quale era scoppiato in faccia qualche apparato
durante un’esperimento di
Chimica. Ebbe il suo soprannome, per via che durante le prime lezioni, quando
qualcuno faceva una domanda, si avvicinava a due millimetri per sentire e
vedere meglio. Penso che ancora fosse in convalescenza da quel brutto incidente
di laboratorio, perché in seguito si comportò normalmente. Il Paguro, dunque, avendo
ottimi rapporti con I suoi ex-colleghi, ottenne un permesso speciale
dall’università, per farci visitare il museo di Geologia e Paleontologia, che
normalmente non era aperto al pubblico, ma solo agli studenti universitari ed ai ricercatori. La cosa che ci fece più impressione fu
l’enorme scalinata di accesso alla Facoltà, una costrizione tipica dell’Era
Fascista. Nel museo, tra i minerali e fossili vari, la cosa più interessante fu
una teca con lo scheletro di una Mammuthessa nana,
grande come un cane danese, con accanto lo scheletro
di un Mammuthino grande come un barboncino. Questa
visita al Museo dell’Università conclude la lunga
lista delle attività culturali extra-scolastiche di quei tempi, in un Liceo Classico, dove le scienze
teoretiche erano all’ultimo posto. Per le scienze applicate, in classe nostra
si andava un po’meglio. In spirito coi
tempi, infatti, avemmo una troika di emulatori di Verner Von Braun: Nando, Romolo e Giulio erano esperti nel lancio dei
razzi. La zona di Cape Canaveral, cioè la rampa di lancio, era il davanzale
della finestra di fondo, che veniva lasciata
“inaccuratamente” aperta per l’occasione. I missili, costruiti accuratamente
dai nostri tre ingegneri, erano composti da tre
cerini, le cui capocchie venivano unite e racchiuse strettamente con la carta
stagnola. La delicata operazione di messa in opera consisteva nell’allargare I tre
‘gambi’ dei cerini, lasciando un’infinitesima intercapedine per l’ugello di
scarico. Uno dei gambi veniva appoggiato su una
moneta, per creare un angolo leggermente inclinato sulla verticale ed
indirizzare il volo in direzione della strada. Dopo il conteggio alla rovescia l’ignizione veniva provocata dall’accensione di un
quarto cerino sotto la rampa. Il più delle volte il lancio faceva cilecca, o
perché i gambi del razzo prendevano fuoco sulla rampa, o perché gli ingegneri
avevano usato troppa carta stagnola, creando un sovrappeso, che impediva il
decollo verso lo spazio. Nei rari casi in cui il missile partiva bene, la
nostra classe accompagnava con un applauso il lancio riuscito. Ma gli esperimenti
dovettero essere temporaneamente sospesi dopo quella volta che Romolo (o Nando)
fecero un errore di calcolo di bilanciamento. Il
missile partì, in direzione del soffitto della classe. Due secondi dopo, a
propellente solido esaurito, compiendo una perfetta parabola balistica, atterrò
senza danni proprio al centro del registro di classe dell’insegnante
di Fisica. Quella volta ci andò buona: il missile non creò nessun cratere da
impatto, e l’insegnante la prese con filosofia scientifica. Figuriamoci cosa
sarebbe successo se la traiettoria, leggermente alzata, avesse portato il
missile ad allunare sulla testa della Prof…
La perfetta traiettoria del missile “Cerino 11” fu
resa possibile dal fatto che il lancio fu effetuato
da un banco dell’ultima fila. Come in tutte le classi che si rispettano, i
posti erano occupati secondo la logica dell’altezza e della secchioneria.
Durante gli anni di liceo ci furono alcuni cambiamenti di posto, ma, almeno
fino alla ‘rivoluzionaria’ disposizione a U operata dal Sartana,
la nostra classe era divisa in tre file di quattro o cinque
banchi ciascuna, disposti di fronte alla cattedra. Guardando verso
quest’ultima, la porta stava a destra e le grandi
finestre a vetri stavano a sinistra. Tra la cattedra e la porta troneggiava una lavagna nero di vecchio tipo, montata su un’intelaiatura
di legno, con la ‘pagina a righe’ sul davanti e quella a ‘quadretti’ sul retro.
La lavagna, superfluo dirlo, non fu mai girata. Per
essere precisi ci provò una volta l’insegnante di matematica, ma la cosa si
dimostrò così laboriosa (probabilmente le viti erano completamente arrugginite
dall’inattività) che la prof. ci rinunciò, accontentatosi
da allora in avanti di disegnare il seno ed il coseno alla bell’e meglio sul
lato ‘a righe’. Sul muro alle spalle dell’insegnante era appeso il Crocifisso e, un po’ più in là il ritratto del Presidente
della Repubblica che, come ho avuto modo di raccontare all’inizio di questa
storia, era stato sottratto varie volte. Alla fine del Terzo il
Daniel riuscì ad asportarlo definitamente, ma visto che, emigrando, non
se lo poteva portare all’estero, partendo lo regalò a Michele, il secondo
classificato alla gara di asportazione. Ed ora, se i ricordi non fanno cilecca, alla disposizione
dei banchi:
Nella fila di sinistra sedevano al primo banco
Daniela e Gabriella (per farsi vedere meglio dalla strada?), al
secondo Giacoma e Giovanna (sperando di non farsi veder troppo dalla
strada?), al terzo Daddo ed Ezio (il nucleo fascista)
ed infine nel banco di fondo i ragazzi più alti: Giulio e Romolo (con Albertone
e “K”). La fila centrale fu più dinamica: al primo banco sedette per tutto il
liceo Emilia che, essendo bassa, secchiona ed
occhialuta, aveva tutti i requisiti per sedersi proprio di fronte agli occhi
degli insegnati. Insieme ad Emilia sedeva una delle
due Gabrielle. I due banchi di mezzo furono occupati a
seconda degli anni da Carlo e da altri “temporanei”. In fondo c’era
Nando. Infine nella fila di destra sedevano (per esaurimento del sesso debole)
Peppe e Nicola. Cosa ci stesse a fare Nicola al primo
banco, riservato ai bassi ed ai secchioni, non si capisce bene, a meno di
spiegarlo con il fatto che il suo posto era anche quello più vicino alla
lavagna (Nicola era l’addetto ai “graffiti”) e, soprattutto alla ... porta
d’uscita. Dietro a Peppe sedeva Amedeo (con Sandro), poi il
Daniel ed infine, dietro di lui Pierluigi, pronto a tirargli qualcosa
addosso, in concomitanza con gli ammonimenti “Apaacifici
” (a distanza) di Giulio. In terzo venne aggiunto un
‘banco zero’ davanti a quello di Peppe e Nicola, per far posto alle due nuove
donne (si fa per dire) arrivate: Tina ed Angelina. Poi venne il Sartana e l’intera disposizione cessò di esistere.
Professori Minori
Come già scritto in precedenza
la sezione C era una sezione di passaggio. Molti insegnanti erano gente in
attesa di avere un posto migliore oppure erano supplenti. Alcuni stettero con
noi così poco da non lasciare la minima impronta nei nostri ricordi, nemmeno un
soprannome.
Per l’insegnante di Matematica-Fisica si dovrebbe
fare un discorso a parte. Fu la nostra insegnante per tutti e tre gli anni di
Liceo, anzi fu addirittura ufficialmente la nostra Insegnante di Classe e, come tale, fece parte della commissione agli Esami di Maturità.
Metterla, quindi, tra i ‘professori minori’ è un po’ ingiusto, ma il fatto sta
che erano le sue materie di insegnamento ad essere
considerate ‘materie minori’ in un Liceo Classico, dove tutto girava attorno
alle Lettere. Per la maggior parte di noi la Tangente era allora (venticinque
anni prima della “Seconda Repubblica”) solo un qualcosa di vagamente obliquo, ed il Seno era un bella parola riguardante le due prominenze
femminili anteriori. Che poi invece sia un errore di traduzione dall’Arabo al
Latino, lo venne a sapere molto più tardi solo quel rompipalle del Daniel, così adesso lo sapete pure voi (APAACE!).
Il nostro rapporto con l’insegnante di Mat./Fis. fu quello di rispetto reciproco “a patto di non
romperci le scatole a vicenda” e questa convenzione fu mantenuta per tutto il
Liceo. D’altronde si trattava di sopportarci per due sole ore settimanali a
materia. Di fatto furono molte di meno, perché Fisica si faceva solo a partire dal Secondo e, quando fu chiaro a tutti che la materia
non sarebbe stata una di quelle della Maturità, in Terzo nessuno toccò il
libro. Sarebbe più giusto dire nessuno tranne Emilia, naturalmente. Matematica
e Fisica, per chi non lo sapesse, al Classico erano materie esclusivamente
orali. Non esistevano i famigerati compiti in classe. Al massimo si potevano
temere le interrogazioni ed il controllo degli
esercizi di fine trimestre, ma per queste piccolezze c’era il vecchissimo e
collaudato sistema: si copiavano gli esercizi di Emila, o la si manda ‘volontaria’
a farsi interrogare. La Prof., poi, che era tutt’altro che stupida, era
perfettamente cosciente con chi avesse a che fare, ed
il più delle volte tagliava la testa al toro, rispiegando per la seconda volta,
per mezza lezione, le formule della lezione precedente. A tale proposito il
compito ufficiale di richiedere ulteriori spiegazioni
era assunto dal noto rompiscatole: il Daniel. Nel complesso i nostri rapporti
con la Prof. andarono lisci come l’olio per tutto il
Liceo, al punto che non le appiccicammo nemmeno un soprannome. Anche il cognome
era finito nel dimenticatoio, finquando Giulio ci ha
ricordato che si chiamava Scerni.
Uno degli insegnanti di Italiano di passaggio fu un professore grasso e pelato. Data la
somiglianza con un personaggio dei cartoni animati per bambini, fu subito
battezzato Papalla. Papalla
aveva insegnato per molti anni all’estero, credo in Libia, nelle scuole della “Dante Alighieri”.
Quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il Governo Libico buttò fuori tutti gli
Italiani, il tizio ritornò in Patria, aggregandosi temporaneamente al nostro
Liceo, del quale la figlia era la Segretaria da sempre. Papalla
amava uscirsene con delle (Don Renato mi scuserà il termine) cazzate per niente
divertenti. Forse in Arabo suonano meglio. La più nota era quella che lui era
un genio, perché la sua fronte cominciava dalle orbite degli occhi e finiva
sulla nuca. Per avere un’idea migliore del Papalla
bisognerebbe, comunque, assistere alla prima occasione, all’imitazione fatta da
Peppe.
Un’altra insegnante che non lasciò traccia fu la
giovanissima neolaureata in Biologia che venne a sostituire il Paguro in Terzo.
Per ragioni che sfuggono dalla nostra memoria venne
soprannominata “Cavallo Pazzo”. Era una supplente alle prime armi dell’insegnamento liceale.
In Terzo la materia ‘Scienze’ non era Biologia, ma
Geografia Astronomica, nella quale la Prof. non
eccelleva molto più di noi. Nelle sue lezioni la classe, con saltuaria
eccezione del Daniel, ronfava beatamente. Una volta,
spiegando le Leggi di Keplero, la Prof. se ne uscì con
l’infelice frase: “Keplero inventò le leggi che permettono alla
Terra di girare intorno al Sole”. Il Daniel, cogliendo
la perla, ribatté di rimando: “Ma, scusi, e allora... prima di Keplero, come
faceva la Terra a girare attorno al Sole?”. La poverina si intrecciò
e disse: “Mah... dovresti chiederlo all’insegnante di Fisica. Di queste cose se ne intende più di me!”.
Il Daniel decise che era meglio
non infierire oltre.
Quando Berta ci lasciò in Terzo, per andare
finalmente in pensione, fu cercato e trovato un’insegnante di Latino e Greco
che sapesse soprattutto mantenere la disciplina ad un
livello, a giudizio della presidenza, almeno sopportabile. Quando il Prof. P.
Nicolosi, un Siciliano di Catania, fece il suo primo ingresso nel Famigerato
III C, aveva già alle spalle una certa esperienza in fatto di eruzioni
vulcaniche (Nicolosi è quel paesino alle falde dell’Etna che ogni tanto viene evacuato per le colate di lava), quindi partì subito
in quarta con un convintissimo monologo sui reciproci rapporti futuri,
concernenti soprattutto la disciplina. La sostanza era: “Patti
chiari, amicizia lunga”. Il tono: “Se non rigate
dritti, vi faccio vedere io. Non per nulla sono un
parente di Don Corleone!”. La nostra classe, ovviamente era ormai troppo
smaliziata per impressionarsi di quel monologo alla
“Savonarola”, che ebbe come unico vero risultato, quello di trovargli subito il
soprannome perfetto: “il Mistico”.
Il Mistico ebbe con noi la vita abbastanza facile, non
tanto perché riuscisse a farci rigare dritti, ma piuttosto perché eravamo in
Terzo, ed era chiaro che non potevamo ignorare il fatto che
Latino e Greco sarebbero state certamente materie da presentare alla maturità.
Di fatto arrivammo presto ad un ‘modus vivendi’
basato, da parte nostra sul principio: “Tu pensa a prepararci agli esami
decentemente, senza renderci la vita troppo difficile con rotture di scatole
superflue, e noi staremo buoni. Tu sarai forse parente di Don
Corleone, ma noi siamo veterani della Bertancomarziomachia!”.
Il Mistico era un insegnante preparato e fece il suo dovere, tanto è vero che
non mi risulta che nella nostra classe ci furono trombati alla Maturità. Del
Mistico ricordiamo soprattutto che usava assumere spesso una posa
stortignaccola (per l’imitazione rivolgersi a Peppe) nella quale si metteva gli occhiali sulla fronte e, leggendo qualche passo
di Cicerone, sparava la sua famosa frase, pronunciata con tutte le è e le ò
aperte dell’accento Catanese: “...sòtto certi
aspetti, ... ... sòtto altri, mèèèno...”
Le Feste
Ad uso e consumo delle giovani
generazioni che dovessero imbattersi per caso in questa storia, racconteremo
adesso qualche cosa sulle feste da ballo. Con ogni probabilità i giovani di
oggi, ormai abituati ad un mondo libero e smaliziato
in fatto di sesso, leggeranno con un malcelato sorrisetto di sufficienza il
nostro comportamento quasi ingenuo di allora, ma sia permesso ricordare alle
nuove generazioni che proprio noi vecchi decrepiti siamo stati quelli che hanno
attuato la rivoluzione sessuale tanto famosa dei famosi anni ’60. Quella
rivoluzione che li ha fatti nascere nel mondo di oggi. Prima di noi c’era il
Medio Evo, dopo di noi c’è stato l’Amore Libero.
Per noi “vecchi”, poi, questi sono i bei ricordi
dell’età dell’adolescenza. Non guasterebbe un po’ di romantica anche ai giovani
di oggi.
Facciamo la descrizione di una tipica festa tenuta
a casa di Sandro, un 9 Gennaio (giorno del suo compleanno), o a casa
di Peppe il 19 Marzo (S. Giuseppe) o dove e quando vi pare e piace.
La prima regola di una buona festa da ballo era
che il numero di donne e di uomini fosse pari, quindi non potevamo limitarci ad invitare solo le donne della nostra classe. Alcuni di noi
erano incaricati, quindi, ad invitare altre ragazze
del ginnasio o non provenienti dalla scuola. L’incombenza di portare le altre
donne veniva data in genere a Sandro o meglio ad Ezio,
che era uno specialista in proposito. Ezio faceva l’entrata trionfale con tre o
quattro ragazze ‘nuove’. Una di loro in genere se lo trovava appiccicato per
tutta la festa, mentre le altre si dileguavano, ballando con gli altri ‘bei
fichi’ di turno. Allora non esistevano i CD, ma i veri e propri dischi, quelli
che si suonavano col giradischi a puntina, e che contenevano un solo pezzo per
lato. Sandro forniva la materia prima, mentre una delle ragazze meno piacenti
di turno si incaricava di sostituire i dischi uno dopo
l’altro senza soluzione di continuità. All’inizio della festa venivano messi balli movimentati. Il Rock-and-Roll ai nostri tempi era già fuori moda. Il Twist
stava dando gli ultimi respiri. Per lo più si ballava lo Shake, che è quello
che oggi viene chiamato semplicemente Disco. Ognuno si
dimenava senza una regola precisa. In questo già si poteva vedere la
Rivoluzione Giovanile: proprio ai nostri tempi, dopo secoli, cessarono
finalmente di esistere i balli con i passi obbligati, che avevano riempito le sale dal Minuetto al Rock-and-Roll.
I balli movimentati erano, ovviamente solo il
preludio della festa vera e propria, che entrava nel suo meglio nei ‘lenti’. La luce veniva
abbassata e si formavano le coppie. E qui lo stile di ballo dipendeva dall’età
e dalla natura delle coppie. Di regola non era permesso di accaparrarsi una
bella ragazza per tutta la festa, a meno che non fosse
la tua ragazza riconosciuta. Le coppie fisse non erano ben viste alle feste
fatte in casa. La regola era che, se volevi paccare
con la tua ragazza, eri tenuto ad andartene in pineta. Le feste erano fatte per
dare a tutti, fichi e meno, la possibilità di divertirsi, di ‘incominciare’ e
di ‘farsi vedere incominciare’ (Ezio). Le coppie, quindi si scambiavano ad ogni ‘lento’. Di regola era
il ragazzo ad invitare la ragazza. Raramente si usava
fare il contrario, solo per un ballo o due, più che altro come gioco di società.
Questa regola sociale, che nelle generazioni seguenti venne
poi abrogata, creava delle difficoltà specie alle ragazze meno belle, perché i
ragazzi non ci tenevano particolarmente ad invitarle. Esse finivano a fare da
‘tappezzeria’, come si diceva allora.
Osservando le coppiette nei
‘lenti’, si potevano notare (nella penombra) pose diverse, che
indicavano chiaramente il rapporto dei due ballerini. Di norma, se la ragazza
invitata era decente, ed il ragazzo possibile e più
alto di lei, la posa classica prevedeva le due mani del ragazzo a metà schiena
della ballerina e le mani della stessa attorno alla nuca di lui. Il contatto
fisico frontale prevedeva un leggerissimo sfioramento della zona toracica, una
separazione millimetrica della zona addominale e delle
due guance, mentre i piedi facevano perno sulla ‘stessa mattonella’ girando in
senso orario.
Se la ragazza era racchia
(era buona regola invitare anche la ‘tappezzeria’ di tanto in tanto), o se la
ragazza non voleva ‘incominciare’, alle mani di lui veniva consentito di
poggiarsi delicatamente sui fianchi, mentre la distanza corporale si allargava
fino ad alcuni centimetri. In caso di coppie fisse (o di ragazze
‘spregiudicate’), le mani del ragazzo si univano tra loro dietro la schiena, le
guance si appiccicavano e così pure le parti addominali. La classica procedura
del ragazzo per incominciare era quella di passare, nel buio, dalla posizione
normale a quella di ‘coppia fissa’. Se la ragazza ci stava, bene. Se no usava il metodo dei gomiti: li chiudeva in modo di
impedire il contatto frontale del torace di lui con il petto di lei. L’antifona
veniva capita, ed il ragazzo passava a ‘provarci’ con
un’altra.
Due parole
sull’abbigliamento. Come i teen-ager di oggi, anche allora andavamo
vestiti in modo molto uniforme. Per i ragazzi il vestiario era (stranamente)
legato alle opinioni politiche. I pochi che si presentavano alle feste
costantemente in giacca e a volte addirittura in cravatta, erano i tre fascisti
della classe: Romolo, Ezio e Daddo. Sandro, anche se
meno “ufficiale”, sfoggiava camice costose di marca,
altrimenti molto simili a quelle degli altri. Era questo il suo unico vezzo da
rampollo ricco, e se lo poteva permettere. Gli altri ragazzi andavano più con
il golf alla dolce vita (la Sinistra Politica invernale) o col solito completo
camicia colorata e pantaloni scuri. Alle feste quasi non si usavano gli jeans, che erano ancora considerati ‘troppo sportivi’.
Per le ragazze alla fine dei ’60 era di prassi il
vestito corto o la minigonna e i collant in tono. La lunghezza della mini
andava in relazione biunivoca alla bruttezza delle gambe: quella di Giovanna
arrivava fin quasi al ginocchio, mentre quella di Daniela non lasciava troppo
all’immaginazione. Capitava spesso che le ragazze facessero sfoggia alle feste
di vestiti nuovi, secondo l’ultima moda, cosa che una volta creò una situazione
imbarazzante. Si era ad una festa a casa di Michela,
verso la fine del quinto. L’ospite accolse gli invitati vestita con un vestito
ultimo grido: un modello attillato, azzurro con il disegno ad anelli
intrecciati gialli e rossi, che finiva due dita sopra il ginocchio. Bellino, ma
niente di speciale su un corpo di ragazza altresì castigata, troppo seria, non troppo magra, occhialuta, che spesso faceva da
‘tappezzeria’. Ad un certo punto arrivò la bella
Paola: alta, bionda, molto desiderata e dal corpo perfetto, dentro...
esattamente lo stesso vestito! Beh... non c’è dubbio che gli abbigliamenti si
somigliassero solo nella... stoffa. Il che dimostrò anche ai più scettici che,
se l’abito non fa il monaco, fa certamente... la
monaca! Ad onore di Michela e Paola diremo che le due
ragazze si ripresero subito dall’imbarazzo, e che la festa fu un successone.
Nelle feste per lo più si ballava e si parlava.
Raramente si facevano giochi di società o il ‘ballo
della scopa’ se c’erano troppe poche ragazze (o molta ‘tappezzeria’). Nelle
case medio-borghesi di allora non si fumava la droga o ci si prendeva a botte.
Se ti capitava di dover fare i conti con qualcuno su qualche faccenda privata
(o ragazza privata), eri tenuto ad andartene a
sistemare i tuoi affari fuori. Prendersi a botte poteva succedere sì, ma erano
casi rari. Uno dei casi in cui il Daniel ed Ezio ci
andarono vicini, successe a casa di Giuseppe. Il Daniel
sostiene in proposito che, nonostante che più tardi nella vita abbia
partecipato ad un paio di guerre vere e si sia aggirato spavaldamente durante
la guerra civile in Libano alla guida di una jeep aperta, quelle furono
quisquilie, in confronto al pericolo per la sua salute in seguito all’azione
“commando” che si permise di fare nei confronti di Ezio a quella festa. Il
nostro “Mandrillo” stava facendosi vedere, come al
solito, nell’azione di ‘cominciare’ con una ragazza. Una ‘nuova’ che si era
portato alla festa. La festa stava andando per le lente. Mancava un po’
d’azione. Il Grasso, chiacchierando con il Daniel,
espresse l’opinione di ‘punire’ Ezio:
“Bisognerebbe calmargli i bollenti spiriti!”. Il Daniel
espresse la sua: “beh? Perché non ti dai da fare?”.
Giulio ribatté: “Ti ci vogli
vedere a te, che fai tanto il saputone. Una volta tanto facci
vedere che sei buono, non solo a parole”. Il Daniel,
punto sul vivo, rispose: “O.K.!”, prese la caraffa dell’acqua fresca e,
avvicinatosi furtivamente alle spalle del Mandrillo, gli vuotò con salomonica
calma, l’intera caraffa sulla testa. Dopo un paio di secondi di attonimento,
Ezio ebbe una reazione decisamente esplosiva: ben
trattenuto da due compagni forzuti, tentò
di lanciarsi sul Daniel urlando: “Lasciatemi!... lo ammazzo!!”. Il Daniel fu ‘gentilmente’ pregato da Peppe di abbandonare
la festa. Due giorni dopo si scusò con Ezio (la caraffata,
con effetto ritardato, aveva calmato i bollenti spiriti) di aver esagerato un
po’ troppo e, da allora in poi, i due rimasero buoni amici.
Il Teatro
Dai frammenti buttati giù finora
vi potrebbe sembrare che la nostra classe fosse formata da compatte amicizie,
durevoli alle intemperie dei tempi. Non è così. Ne sia testimone la storia del
“teatro”, che causò uno screzio abbastanza profondo tra Giulio e “Don” Nicola
“il Grasso”.
Quando noi frequentavamo
il Terzo, in Secondo c’era un ragazzo di nome Mario, paralizzato alle gambe da
Poliomielite. Mario era del nord e viveva con una sorella sposata e col
cognato, che lo portava a scuola in macchina tutte le mattine, lo prendeva in
braccio per le scale, per poi adagiarlo delicatamente accanto al muro
dell’entrata. Da lì Mario, con l’aiuto delle stampelle, si incamminava
in classe. Mario era un tipo molto cordiale e, nonostante l’invalidità, fece
presto amicizia con tutti. Ovviamente non poteva partecipare con noi alle
partite a pallone o ballare alle feste. Non so come un giorno gli venne l’idea
di fondare un “circolo culturale”, che poi fu chiamato “il teatro”. Alcuni
ragazzi e ragazze del corso si riunivano una o due volte alla settimana a casa
sua, in salotto, attorno a lui, a preparare la messa in scena dell’ “Opera da Tre Soldi” di Bertolt Brecht. C’erano, oltre
a Mario che fungeva da regista, Sergio (della sua classe, fratello della nostra
“Rebecca” - Mackie Messer), quattro ragazze del
Primo: la bella Claudia (Polly Peachum),
la compassata Luigia (Celia Peachum), la piccola
Daniela (Lucy Brown) e Lucia Visca,
la “Margutte” del Primo C (chi non se... Jenny delle
spelonche!). Del terzo c’erano Giulio (Gionata Peachum), Maurizio (Il Capo Brown)
e Michele (Giacobbe, uno della banda di Mackie) ed il
Daniel (Filch), in funzioni di comparse
La messa in opera dell’Opera da Tre Soldi non venne mai portata a termine, perché gli incontri erano fondamentalmente
solo una scusa per fare compagnia a Mario e per dedicarsi in quella che allora
veniva definita dalle Estreme Sinistre Popolari “Masturbazione Intellettuale”,
termine di uso rivoluzionario per dire “circolo culturale della borghesia intelletualoide”.
La storia del Circolo del Teatro si riseppe, e si
tirò addosso i sollazzi dei membri “popolani” della
classe, primo fra tutti Nicola, che non la smise per un po’ di fare
apprezzamenti sarcastici, soprattutto in direzione di Giulio che era, a ragione,
il più intellettuale della nostra classe. Le prese in giro girarono per lo più
attorno al fatto che il teatro era una scusa come un’altra per ‘incominciare’ con le ragazze del Primo, ma... con chi,
poi? Una (Claudia) aveva notoriamente un ragazzo fisso, un’altra (Luigia) era
un tipo frigido, una terza (Daniela) era troppo bassa, da sembrare una bambina ed infine soprattutto Visca,
considerata non solo brutta, ma soprattutto la più grande rompipalle del corso.
Questi apprezzamenti, non proprio “delicati” nei confronti delle ragazze e del
“Circolo del Teatro”
fecero andare giustamente Giulio su di giri, e lui probabilmente tacciò il
Nicola di cafoneria e di buzzurità. Insomma, quello
che era nato come una buona azione per alleviare l’infermità di Mario e stare
insieme a fare un po’ di vera cultura, si trasformò in una forte divergenza di idee e di comportamento tra gli “Intellettuali Borghesi”
ed i “Popolani” con a capo Giulio da una parte e Nicola dall’altro. Da allora
in poi, fino alla Maturità, i due si parlarono poco o niente.
Giulio sostiene che più che di uno screzio tra lui
e il Don (con cui per altro è rimasto in rapporti cordiali) si trattò
semplicemente della presa d'atto del fatto che, passata l'età del bigliardino,
si erano ormai fatte troppo forti le differenze caratteriali e di gusto,
tipiche dell'età adulta. Il teatro fu solo l'occasione del divorzio, altrimenti
ci sarebbe stato qualcos'altro.
Il problema, a detta di Giulio, è che non è
possibile che gente diversissima in tutto, che casualmente si ritrova insieme a
14 anni, possa poi continuare a farlo anche a 18-19
come se niente fosse. La colpa è al solito della scuola, che dura troppo.
"Compagno di scuola, compagno di niente",
proprio come canta il grande Venditti.
Non sono d’accordo con Venditti. Qualcosa è
rimasto di quell’amicizia. Qualche simpatico ricordo sbiadito, che abbiamo
cercato di mettere in questa storia, e la scusa di incontrarci di tanto in
tanto, per chiederci come ce la passiamo, per presentare le mogli, i mariti, i
figli. Per esclamare “Ma come... ha già finito l’Università?,
me la ricordo ancora in carrozzina!”. La scusa per dire al
Daniel: “Ma dove sono finiti i tuoi capelli? Si sono
bruciati, perché dalle parti vostre il sole incoccia di più, o te li sei
strappati chiedendoti perché non sei rimasto in Italia”. La risposta ve
la dico quando ci rivediamo.
Avrete certamente notato che nonostante questo
racconto sia stato intitolato “La Storia di Berta & C.”, ci siamo
soffermati su gli “& C.” Molto di più che su Berta. Non c’è bisogno di
spiegare agli eroi chi sia stata la protagonista di questa saga,
ma, ora che conoscete le comparse, è d’uopo raccontare (magari con qualche abbellimento qua e là) il
nocciolo della Bertancomarziomachia.
Come già accennato, ai nostri tempi al liceo era
di moda la “contestazione”. Il Maggio Francese aveva fatto il suo effetto anche
nel pacifico quartiere di periferia in riva al mare.
Ogni generazione, giunta all’età della maturità
sessuale, ha bisogno di scaricare la tensione e la frustrazione delle delusioni
amorose in un modo o nell’altro. Le vittime di questo processo biologico sono
in genere i genitori e gli insegnanti. Purtroppo la generazione dei Padri
dimentica con gli anni, e la tensione a volte esplode come un fulmine a ciel
sereno sui poveri adulti, senza che loro si rendano conto del come e del
perché. Anche per la nostra generazione liberale del dopoguerra le cose non
sono state molto diverse, perché non è cambiato il processo biologico che
permette la continuazione del genere umano: i cuccioli litigano tra di loro, i
bambini delle elementari qualche volta fanno a pugni, ed
i Liceali esasperano gli insegnanti.
La Natura impone il comportamento irriverente
della generazione in fase di maturazione.
Cosa importa al liceale medio della
trigonometria, o quanto sia interessante quel verso irregolare latino, quando
proprio ieri Mariella ti ha detto di no, e poi l’hai vista sul molo,
sbaciucchiarsi con Franco? E cosa ti importa la Terza
Coalizione contro Napoleone se proprio il giorno prima del Derby a cui volevi
portare Lucilla, il portiere bel fusto che piace a lei non giocherà, perché si
è infortunato in allenamento?
Giulio e Daniel decisero
un giorno di mettere su un duetto di armoniche a bocca, e la logica imponeva di
allenarsi durante le lezioni di Latino di Berta.
Rintanati nei banchi dell’ultima fila, Giulio e Daniel
accordarono gli strumenti, nel bel mezzo di un noiosissimo pezzo di Cicerone.
Ezio ridacchiò in silenzio e “Don” Nicola approvò, con un breve colpo di
tosse-foca. Berta smise di leggere ed alzò gli occhi
sopra gli occhiali a mezza luna, fulminando lo sguardo sul Daniel. Berta aveva
l’udito fino. Daniel fece la faccia d’angelo. Berta continuò a leggere ad alta
voce. Giulio suonò una scala di semicrome alte. Una delle ragazze si lasciò
scappare una risatina della stessa tonalità. Berta guardò in direzione di
Giulio con gli occhi fiammeggianti. Il compagno di banco di Giulio, Albertone,
stava leggendo, come al solito, un libro sul marxismo.
Albertone, come già accennato, era di Estrema Sinistra ed odiava tutto quello che aveva odore di
Fascismo, di Antico, di Decrepito, di Borghese. Soprattutto odiava Berta, come
simbolo di tutte le qualità più negative del potere costituito. E Berta odiava
Albertone, come simbolo della rivoluzione anarchica, dell’irriverenza, eccetera...
invece Giulio “Era – vero – un ragazzo sempre educato – vero – ed ossequioso...”. Quando Giulio tentò una scala di
semicrome basse, Berta esplose: “Ma insomma, Albertino - vero – smettila con
quel fischietto!”. Albertone alzò gli occhi dalla pagina con il commento sul ‘Manifesto’. “Che vuoi, Berta? Non
scocciare!”, Disse, e riprese a leggere il libro. Berta allibì, ma poi
si riprese: “Porta rispetto e smetti di far finta di leggere!”. “Rispetto si
porta ai Compagni, non ai Borghesi!”. Era troppo anche per Berta, che buttò
Albertino fuori dalla classe. Albertone si alzò, con il libro in mano e la sua
mastodontica borsa nera in mano, e si incamminò verso
la porta, mormorando: “Oppressione Fascista!”. Berta segnò una nota di condotta
nei confronti di Albertino sul registro di classe.
Giulio si sentiva un po’ colpevole del sopruso di
Berta. Era stata appena commessa un’ingiustizia nei
confronto del povero Albertone, che non c’entrava niente. Si alzò in piedi e prese
le difese del compagno di banco. “Ti ci metti anche tu – vero – che sei sempre
stato un bravo ragazzo!”. Il Grasso sbottò: “Come sarebbe a dire... ‘Anche tu...’, Che ‘è... speciale, Giulio?” . “Nessuno ti
ha interpellato – vero - . Fuori anche tu!”. Il Grasso
spinse la sedia rumorosamente, bestemmiando. Berta aggiunse una nota di
condotta nei confronti di “Don” Nicola. Il Grasso uscì, sbattendo la porta,
facendo un poderoso verso della foca. Tutta la classe mormorò al alta voce, protestando per il sopruso e facendo un
chiasso infernale ‘raschiando’ le gambe delle sedie sul pavimento. Berta,
esasperata, scarabocchiò una nota di condotta generale ed
uscì dalla classe, in direzione della presidenza, accompagnata dalla nota più
bassa dell’armonica del Daniel, quella che ricorda il suono che viene prodotto
da chi ha mangiato molti fagioli la sera prima.
Durante la guerra contro Berta ognuno ebbe le sue
incombenze militari. “Don” Nicola, per esempio, si occupava di scrivere sulla
lavagna l’Ordine del Giorno e di suonare la carica ‘Focosa’. Peppe era di
vedetta: il suo compito era quello di segnalare
l’avvicinamento del ‘nemico’ dalla direzione del corridoio. Ezio ed Emilia si
‘sacrificavano’, offrendosi volontari di arrestare lo ‘sfondamento’ causato da
qualche controffensiva nemica (interrogazioni a tradimento). Le ragazze in
generale si occupavano della Sussistenza, provvedendo (involontariamente) alle
cibarie necessarie allo sforzo bellico dei ragazzi al fronte. Il nostro
‘trombettiere’ Nicola non sarebbe potuto andare avanti nell’incitamento, se non
in grazia ai sostanziosi panini e cornetti forniti (cioè sottratti) da Emilia,
Daniela e Giovanna. La missione
principale del Daniel era quello di distrarre
l’attenzione del nemico, con domande astruse e cervellotiche, durante le azioni
di salvataggio in ‘Zona Cesarini’, cioè di impedire i calci di rigore di Berta
nei confronti di qualche interrogato, cinque minuti prima della campanella.
Dovete riconoscere che, in questa incombenza, il Daniel
si fece onore. Un altra funzione, un po’ meno nota,
del Daniel, fu quello di ‘Ufficiale di
Logistica’. Sussistenza a parte, lo sforzo bellico richiedeva un armamento diversificato, a seconda delle missioni da portare a
termine. Nella precedente storia del duetto le armi del delitto, cioè le
armoniche a bocca, erano state fornite da lui. Fu nuovamente il
Daniel a fornire una delle attrezzature ausiliarie di quella che fu la
più importante ‘Azione Commando’ che la storia della Bertancomarziomachia
ricordi. La chiameremo in codice...
Operazione
“Satirata”
Documento riservato
1. Descrizione
della Zona di Operazioni:
Berta viveva in un
villino a tre piani, sul lungomare. Il villino era una costruzione degli anni
trenta, intonacato esternamente di un rosa di pessimo gusto. Come molte ‘case
per le vacanze’ fatte secondo il gusto dell’epoca, aveva
la forma ‘a nave’: un rettangoloide con un lato lungo sul lungomare e i due
lati corti adornati da terrazze a forma di ‘semicilindro’. L’entrata principale si trovava sul lato lungo posteriore.
Il portone era di legno massiccio, adornato da due grosse maniglie di ottone,
sistemate orizzontalmente a metà altezza di ognuna delle
due ante.
A circa cinque minuti a piedi dal villino c’era
una fermata d’autobus, dalla quale Berta scendeva, per recarsi a casa,
percorrendo a piedi una strada scarsamente illuminata.
2. Consistenza
delle Forze nemiche:
Berta viveva da sola. Non si sa se il villino
fosse di sua proprietà, o se l’avesse preso in affitto, ma ciò non ha
importanza ai fini dell’Operazione. Le difese passive del nemico consistevano
in un alto ed invalicabile muro di recinzione sui tre
lati principali. Sul lato posteriore, unico attaccabile, oltre alla scalinata
di accesso alla ‘fortezza’ c’era il massiccio portone già descritto, munito di
poderosi chiavistelli. Le difese attive consistevano in un sistema di
comunicazioni efficientissimo (il telefono).
3. Scopi
dell’ “Operazione Satirata”:
Definita principalmente Azione di Rappresaglia, la
“Satirata” portava il fronte nel cuore del territorio
nemico, ed aveva come ultimo fine quello di
contribuire a convincere Berta ad andarsene in pensione e smettere
definitivamente di rompere.
4. Il
Programma generale:
Vista l’impossibilità di espugnare la roccaforte con
un attacco diretto, fu deciso dallo Stato Maggiore (Nando?) di tendere
un’imboscata al nemico, sulla via tra la fermata ed il
villino.
Ora X: Tardo pomeriggio/sera,
all’arrivo di Berta alla magione, di ritorno da qualche ignota incombenza.
5. Forze
Partecipanti:
Il Servizio di Sicurezza non ci
ha consentito ancora di rivelare l’esatta consistenza e natura del personale
partecipante al “commando”, pertanto questo comma rimane TOP SECRET.
6. Armamenti:
Le armi principali consistevano in:
A.
Lenzuoli bianchi,
sufficientemente grandi da consentire sia la completa mimetizzazione
delle forze del commando, sia di conferire l’aspetto spettrale di fantasmi alle
stesse.
B.
Sistema ausiliario che consisteva
in vari strumenti a percussione (per fare il massimo rumore, ben s’intende, non
per colpire il nemico).
Le attrezzature ausiliarie:
C.
Attrezzatura di bloccaggio della
ritirata: una catena ferrea lunga un paio di metri, con lucchettone Yale.
D.
Panini della Sussistenza.
7. Tempi
d’Azione:
Ora X meno quaranta minuti:
“Forza Apace”
suona al portone di Berta, per controllare se lei è in casa. In caso negativo, procede a passare la catena 6 C tra le due maniglie, a
chiudere il lucchettone ed a buttare la chiave.
Ora X meno trenta minuti:
“Forza Occhio di Lince” di
avvertimento viene mandata perlustrazione all’angolo
della fermata, per avvertire l’arrivo del nemico.
Ora X meno cinque minuti:
Arrivo dell’autobus e discesa di
Berta dallo stesso.
Mimetizzazione
della “Forza Satirica Principale”, tramite armamento 6 A di cui sopra.
Ora X:
Spiegamento
della forza attorno al nemico, in abbigliamento mimetico 6 A e attivazione del
Sistema Ausiliario 6 B.
Ora X più cinque minuti:
Ritirata strategica.
Fine documento riservato
Nonostante che l’operazione fosse stata
programmata nei minimi particolari, i risultati non furono quelli sperati.
La “Forza Apace”,
mandata in avanscoperta in perfetto orario, suonò al campanello con insistenza
varie volte . Dopo due minuti di attesa dal di là del portone si udì una flebile voce, proveniente
dal corpo di guardia: “Ma chi è – vero – a quest’ora della sera?”. La “Forza Apace” si fece riconoscere dal nemico. “Scusi l’ora, sig.
Professoressa, ma volevo chiedere un chiarimento sul compito in classe di
domani... a che ora sarà”. Si aprì un piccolo spiraglio incatanellato,
e dall’alta parte della penombra della breccia, un paio di occhiali a mezza
luna ed un naso vagamente grigio risposero
all’ambasceria: “Ma non potevi chiederlo – vero – a qualche tuo compagno – vero
? Ti sembra questo il modo di venire a disturbare a quest’ora, con una domanda
così stupida?”
La porta venne rapidamente
richiusa. La “Forza Apace” tornò a riferire e lo
Stato Maggiore dette il comando di “Missione Abortita” e “Scioglimento dei Ranghi”.
Meno male. Figuratevi che cosa sarebbe potuto succedere se,
in conseguenza alla riuscita dell’ “Operazione Satirata”,
Berta fosse finita non in pensione ma... all’ospedale con un attacco cardiaco!
Tralasciamo di nuovo, per un po’, la “Bertancomarziomachia”, per ritornare alle relazioni
uomini-donne in classe nostra. Queste relazioni hanno avuto alti e bassi
durante gli anni di Liceo, cosa perfettamente normale a quell’età. In fatto di
amori, le più uniche che rare coppiette furono estremamente
temporanee. Le rare “cotte”, mantenute nel più stretto segreto, specie dalle
ragazze. A quei tempi se ad una ragazza piaceva un ragazzo
della classe, ci faceva per lo più a pugni. Se ad un
ragazzo piaceva una delle ragazze meno belle (quelle belle piacevano a tutti,
ma non ti filavano), si limitava a non prenderla in giro, che era uno
degli sporti preferiti dei ragazzi. Tutto questo derivò, naturalmente, dal
fatto che la nostra classe era molto “maschile” e, come conseguenza, molto
frizzante. Fummo, in sintesi, veramente “la classe più
casinara della storia del nostro istituto”, e le profonde radici di questo
fatto vanno cercate molto lontano.
Chi dovesse credere a
certi strani segni del destino, avrebbe potuto notare sin dall’inizio che la
nostra non sarebbe stata una classe ‘normale’. Provenivamo da una Scuola Media dove le classi Maschili e Femminili erano separate. Il
fatidico primo Ottobre, alla prima ora di lezione di
quel lontano IV C, in un’aula gigantesca all’ultimo piano di quell’ex Collegio
degli Orfani di Marina dell’Era Fascista, adibito temporaneamente a Liceo, ci
trovammo per la prima volta in classe mista. Pochi si conoscevano da prima, e
fu subito chiaro che il numero dei maschi soverchiava quello delle femmine.
Questo sbilanciamento sessuale fu poi, come già scritto, esasperato dalla Zona.
Quando l’insegnante di lettere cominciò a fare il primo appello, fu subito chiaro
che in IV C non c’erano né Aldobrandini, né Borgia, né Caetani.
Anzi non c’erano nemmeno Falconi o Ferrari. Il primo ad
essere chiamato all’appello fu un biondino dall’accento vagamente toscano di
nome Gambassi Michele. La lettura dei nomi procedette per una buona mezz’ora,
terminando con una ragazza bella, alta e bionda di nome Zangrandi Paola. Dicevamo dei segni del destino che
avrebbero dovuto far presentire che quella classe non sarebbe divenuta una
‘classe regolare’: Dopo aver chiamato all’appello la signorina Nardacchione Emilia ed il signor
Nardi Aurelio, la Prof. di Lettere procedette indisturbata verso il signor
Olimpieri Odoardo (che nome!), si dilungò poi attraverso i due Pace[1]
(Ma che ti fai la solita domanda cretina se siamo
fratelli? Non lo vedi che ci somigliamo solo... negli occhiali?) e dopo aver
fatto conoscenza con la signorina Rauseo Giovanna e
con la signorina Rebeggiani Gabriella, fu chiamata la signorina Romolo Norma. Fu allora che, dall’ultimo banco,
si alzò uno spilungone magro che rispose il fatidico: “Presente!”. La Prof. lo guardò sospettosa. Ma tu...,
lei, non è la signorina Romolo? Come ti chiami... tu? Il ragazzo fece la
faccia innocente e rispose con malcelata enfasi: “Romolo Norma!”. Il registro
di classe fu sostituito con uno nuovo di zecca, dove il nostro Romolo occupò definitivamente
il suo posto tra Aurelio ed Odoardo.
I ragazzi, dunque, erano più delle donne, e si
dedicarono coscenziosamente allo sport di rendere
loro la vita il più difficile possibile in classe (fuori classe,
alle feste, la situazione cambiava drasticamente).
Le ragazze portavano a scuola con loro la
‘colazione’. In genere si trattava di un panino o di un cornetto, da mangiare
alla ‘ricreazione’, cioè alla fine della seconda o (a partire
dal Secondo Liceo) della terza ora. I ragazzi in genere non si portavano
niente, ma sottraevano la colazione delle ragazze. Alcuni di noi, Nando, Romolo
e soprattutto Nicola erano dei veri campioni. Credo che ad
un certo punto alcune ragazze si portarono la colazione doppia, Un panino,
messo bene in vista, veniva sottratto, l’altro, ben nascosto, sopravviveva
all’operazione sottrazione e fungeva da colazione alla ragazza.
Ora vi racconterò un fattaccio che ho tenuto
gelosamente segreto. Spero che il crimine sia caduto in proscrizione e che
Daniela voglia perdonare la malefatta, dopo aver letto la confessione.
Il Daniel era l’unico ad avere
passione (ed a capire) la Chimica. A casa si era costruito un piccolo
laboratorio per gli esperimenti, racimolando vari prodotti e reagenti, vuoi in
farmacia, vuoi dal ferramenta. Tra i vari idrossidi e
solfuri (no, celenterati no. Sono degli animali), per
la maggior parte polveri bianche di aspetto zuccherino, c’era anche il Solfato
di Magnesio (Epsomite), detto anche Sale Inglese,
notissimo e potentissimo lassativo. Un bel giorno al Daniel
venne la diabolica idea di ‘punire’ i sottrattori di merende, soprattutto il
Don, che negli ultimi tempi si erano fatti eccessivamente sfrontati. L’idea era
chimicamente semplice: mimetizzare un pizzico di Sale Inglese (la sostanza è
piuttosto amara) nello zucchero di un cornetto ed
attendere il risultato della ‘sottrazione’. Per l’operazione fu scelto il
cornetto di Giovanna. Il Daniel fece la cosa di primo
mattino, nel massimo segreto, non mettendo al corrente nessuno. Voglia il caso
che quel giorno Nicola si assentò e Giovanna, alla ricreazione, dette
fraternamente il suo cornetto a Daniela. La poveretta fu presa da poderosi
attacchi intestinali e dopo alcune visite ai gabinetti, si vide costretta ad
abbandonare la lezione in pianto. Il nostro Apace
chiede perdono. Come avrebbe dètto il Mistico: “L’intènziòne era buona, il risultato mèèèno”.
Continuando a narrare la
storia della ‘crudeltà mentale’ dei ragazzi nei confronti delle ragazze, non si può fare a meno
di ricordare quella attuata contro Franca, anzi contro “Giacoma”, perché
nessuno di noi ha usato chiamarla per nome proprio in tutti gli anni di Liceo. Non che questa fosse una
sua prerogativa speciale, dato che la maggior parte di
noi veniva generalmente chiamato per cognome o, meglio per soprannome, ma
Franca era una ragazza così grigia, da essere considerata dai ragazzi, più che
una compagna, un mobile messo lì per caso. Franca era uno degli alunni più
anziani. Incominciò già il Quarto con noi come ripetente, ma sicure
informazioni (di cui non posso rivelare la fonte) la
danno di almeno due anni più anziana della maggior parte di noi. Quasi
sicuramente aveva ripetuto anche una classe alle Medie Inferiori. Giacoma,
l’avrete capito, non brillava in intelligenza. Si barcamenava nell’eterno
grigiore di quel secondo banco vicino alla finestra. Taciturna, alta, brutta ed attrezzata di un paio di occhiali con lenti a fondo di
bottiglia, che servivano solo ad accentuare il suo aspetto quasi spettrale.
Aveva forse solo due anni più di noi, ma sembrava già una vecchia zitella. Ma
forse la ragione di tutto questo era proprio legata a quelle lenti:
ripensandoci ora, a distanza di trent’anni, Franca era praticamente
quasi cieca. Magari il suo grigiore non dipendeva da una scarsa intelligenza,
ma piuttosto dalla difficoltà di leggere i testi e di seguire le spiegazioni
alla lavagna. Fatto sta che, nel suo grigiore, ce la trovammo ad ogni nuovo anno come compagna, e non si perse mai per
strada.
Fino al Primo Liceo i giorni di scuola
cominciavano verso le otto e mezza di mattina e si
prolungavano per quattro o cinque ore, con un solo intervallo di dieci minuti,
la ricreazione, alla fine della seconda ora. Il numero di giorni con cinque ore
aumentava di anno in anno, finendo, in terzo a comprenderli tutti, meno il
sabato. Non si sa per quale ragione, in Secondo, il Sordello
decise di cambiare le regole, alle quali eravamo abitiati fin dalle medie, e di spostare la ricreazione alla
fine della terza ora, aggiungendo altri cinque minuti. L’innovazione aveva una
sua sana logica: quella di sfruttare meglio le ore mattutine, in cui alunni
ed insegnanti erano ancora svegli (a quei tempi si andava a letto presto). Ma la nostra classe, nel bel mezzo della Bertancomarziomachia,
vide in quel cambiamento arbitrario un altro sopruso delle ‘Forze Costituite’.
La nostra reazione (appoggiata silenziosamente dal Sartana)
fu di fare una dimostrazione ‘di Non Violenza’. Appena suonava la campanella
della ricreazione, tutti i banchi venivano spostati e
trasformati in una grossa tavolata
Comparivano tovaglie, piatti e cibarie prelibate ed abbondanti di tutti
i generi. Venivano invitati i professori di passaggio
ad accettare un assaggio (ovviamente accettava solo il Sartana).
Passato il quarto d’ora, al suono della campanella, il tutto veniva
rapidamente ripiegato e si continuava la lezione della quarta ora. Se c’era Storia e Filosofia, si lasciava la disposizione dei
banchi com’era. Da qui forse ebbe origine la Rivoluzione Sartanica
di cui ho già parlato.
La cosa andò avanti per
un po’, finche ci stancammo e prendemmo l’abitudine di fare le prime tre ore di
filato. Proprio in questo periodo di manifestazione alla Ghandi,
venimmo a sapere dell’incipiente compleanno (il diciottesimo, se non
addirittura il diciannovesimo) di Giacoma. I ragazzi indissero tra di loro una
competizione. Per il fatidico giorno, ognuno di noi portò a colazione una
carota ed un finocchio, delle dimensioni più grandi possibili, chiaro riferimento alla
situazione di ‘Vecchia Zitella’ di Franca. Al suono della campanella ci sedemmo
tutti attorno a lei sgranocchiando i mastodontici ortaggi. Non ricordo chi vinse,
ma la carota più grossa misurava settanta centimetri in lunghezza e cinque in
spessore. Crudeltà mentale, anche se non mi pare che Giacoma se la prendesse
troppo. Furono le altre ragazze a portarci il broncio per un po’.
Proseguiamo la nostra storia. Avrete notato che
gli avvenimenti raccontati non hanno un ordine preciso, né temporale, né
logico. Ciò è spiegato dal fatto che su queste pagine sono stati raccolti i
ricordi frammentari di tempi ormai lontani e, come si sa, i ricordi spesso si
accavallano tra di loro. A volte vengono in mente particolari sfuggiti in
precedenza. Nel nostro caso, poi, la Storia di Berta & c. non è stata
buttata giù da una singola persona, ma da diversi ex-compagni, che hanno avuto
e, spero, continueranno ad avere fino alla fine, la pazienza di collaborare con
il loro ricordi personali. Grazie a questo Team-work,
le rimembranze si corroborano le une con le altre ed
il quadro si fa sempre più chiaro. Ma non stiamo
scrivendo un libro di Storia per le generazioni future. Siamo qui solo a farci
quattro risate tra vecchi “camerati”. La maggior parte di quanto è stato scritto finora, e sarà scritto nelle prossime pagine,
non potrà mai essere assaporato fino in fondo da chi non l’ha vissuto di
persona. Al massimo l’estraneo lettore potrà fare qualche analogia con
situazioni analoghe vissute personalmente.
Rileggendo la prima parte di questo scritto,
buttata giù più di trent’anni fa, quando i ricordi sarebbero dovuti essere più
freschi, ci siamo accorti di aver detto diverse
inesattezze. Non sono cose essenziali, beninteso, ma la pignoleria impone di
ritornare e di ampliare alcuni avvenimenti, alla luce dei nuovi ricordi venuti
a galla col tempo.
A tale proposito si è raccontato che dopo la “storia
del gattino” e la verniciatura delle finestre di verde opaco, i “soliti ignoti”
spaccarono a sassate i vetri della classe. Si è detto che ci rifiutammo per due
giorni di entrare nell’aula, con la scusa degli spifferi invernali, finché i
vetri furoro riparati, nostro
malgrado.
I ricordi, ritornati a galla da allora, raccontano
i fatti con più particolari:
La burocrazia comunale lavorò con maggiore
lentezza di quanto si è detto. Il preside, dopo due giorni di sciopero, si rese
conto che era necessaria una soluzione di ripiego, in attesa dell’agognato
vetraio comunale, e decise di far continuare temporaneamente le nostre lezioni,
in mancanza di aule libere, nella biblioteca del Liceo.
Era questa una stanza non più grande delle altra aule, per tre quarti occupata da alti scaffali
metallici dal soffitto al pavimento. L’unico spazio libero era rappresentato da
un lungo ‘corridoio’, largo un paio di metri, tra gli scaffali ed il muro. Lo spazio in questione era occupato da un lungo
tavolo di lettura (allora non c’erano i PC). Il tavolo era di
fatto costituito da tre o quattro “cattedre”, i grandi tavolini
occupati, in classe, dai professori. Nelle normali aule la cattedra era posta
su un rialzo (che è poi – vero – la katedra
originale, come – vero - ci insegna Aristotele). La
cattedra era un grosso scrittoio, chiuso su tre lati da uno spesso strato di
compensato, in spirito con i preistorici costumi della vecchia scuola, (per non
far vedere le gambe delle professoresse bellocce e per permette a qualche professore
di grattarsi i... senza essere visto dagli alunni, a seconda
dei casi).
Nella biblioteca sarebbe stato molto più pratico
mettere dei tavolini ‘aperti’ da tutti e due i lati,
ma, evidentemente, il Ministero della Pubblica Istruzione riteneva l’assegnazione
speciale una cosa troppo complessa.
Quando entrammo a far lezione nella biblioteca
eravamo già sufficientemente eccitati dalla novità. Il Sartana
ed il Paguro, si sedettero, ovviamente a ‘capotavola’
ed ebbero un po’ di difficoltà a mantenere la disciplina di una classe seduta
di qua e di là sui lati lunghi, una dozzina di compagni per lato.
Quando, alla terza ora, Berta entrò per la prima
volta a far lezione, decise che il posto a capotavola non le consentiva
sufficiente spazio per mettere il registro e le scartoffie personali e,
spavaldamente, fece alzare uno di quelli che sedeva dalla parte del ‘lato aperto’ del tavolo centrale. In men che non si dica
attorno a lei si fece il vuoto. Tutti i ragazzi che sedevano fino a quattro
sedie di distanza alla sua sinisrta ed alla sua destra, si alzarono e trasportarono le loro
sedie sul lato opposto, il più lontano possibile da Berta, prendendo posizione
in seconda fila, in ‘galleria’. Inutile dire che quelli davanti non volevano
concedere un po’ spazio a quelli di dietro, e che le due ‘file’ incominciarono a darsi un po’ di spinte sotto la linea
dell’orizzonte, gli uni contro gli altri. A un certo punto un ignoto della fila
posteriore sferrò un calcetto in avanti e la tavola di compensato produsse un
rimbombante suono di “Tamburo principal della banda
d’Affori”, amplificato dalla risonanza dei tavolini limitrofi. Fatta la
scoperta, il concerto di Tam-Tam andò avanti ad ogni nuova ‘perla’ di Berta,
dapprima in sordina (Adagio ma non troppo), per passare ad Allegro
vivace, e per finire a mo’ del “Bolero di Ravel” in un Finale in crescendo Maestoso con
brio, che fece crollare definitavente i nervi di
Berta.
Mi pare che quella fu la volta che lei ci lasciò
temporaneamente per fare un tentativo di insegnare alla sezione A, prima di
andare definitivamente in pensione.
E poi c’è di dice che
visitare le biblioteche non serve a niente!!
Lambrette, Vespe e... portajella
Il nostro liceo era situato in posizione
‘fuorimano’, all’estremo Est del nostro Lungomare. I compagni più vicini
abitavano a diverse centinaia di metri di distanza, la maggior parte di noi ad un chilometro o due, per non parlare di quelli che, come
Albertone, Kappa, Don Nicola e Borsa, dovevano prendere il trenino o due
autobus ogni mattina. Dato che c’era da scarpinare un bel po’, il ritorno a
casa alla fine delle lezioni era sempre una festosa fiumana, specie nelle belle
giornate primaverili. Spesso e volentieri la fiumana si spezzettava in piccoli
gruppetti od in timide “coppiette”, dove un ragazzo cercava
di attaccare discorso con qualche ragazza libera, e di “incominciare”. La
fiumana si frammentava strada facendo, specie al Cavalcavia, passaggio
obbligato per quelli che abitavano dietro la ferrovia. Se la fine delle lezioni
ci vedeva uscire gioiosamente in formazione compatta, l’arrivo mattutino ci
vedeva sopraggiungere a piccole gocce, più o meno
secondo un ordine stabilito: Primo tra tutti Albertone. Quando arrivavano gli altri era già lì, come se ci avesse dormito
la notte. Gli altri arrivavano un quarto d’ora prima della campanella (venti
minuti prima, per copiare gli esercizi di Latino da Giulio). Emilia arrivava in
macchina, accompagnata dal padre, alla campanella meno dieci,
ed il Daniel arrivava in eterno ritardo, due secondi prima dell’inizio delle
lezioni.
Verso il Quinto cominciò la motorizzazione. La
patente di guida si poteva prendere solo a 18 anni, ma
già dai 16 era consentito andare in motoscooter di 50cc di cilindrata (senza
targa). Si formarono subito due partiti: quello della Vespa e quello della
Lambretta. Le Vespe erano più maneggevoli, erano colorate in una vasta gamma di
colori pastello alla moda, ma erano considerate meno sicure sulla strada. Le
Lambrette erano più solide, affidabili e, soprattutto, avevano più posto per un
secondo passeggero (tra l’altro vietato dal codice della strada fino ai 18 anni).
Non tutti i padri si potevano permettere il lusso
di motorizzare i propri rampolli, ancora meno erano quelli che acconsentivano,
pur potendolo, di dare in mano ai ragazzi un aggeggio pericoloso, anche per
quei tempi di traffico relativamente modesto sulle strade.
In classe nostra il primo a raggiungere l’età
della motorizzazione fu Ezio. Optò per la Lambretta.
Bianca. La parcheggiava proprio di fronte alla finestra ed,
almeno all’inizio, sbirciava ogni cinque minuti, per controllare se era ancora
al suo posto. C’era sempre. Al ritorno a casa si dedicava all’accensione con noncelataffatto soddisfazione, tra un nugolo di compagni
(finché ci stancammo di seguire la “scena”) e la ragazza ‘accompagnata di turno’. Non che Ezio ci facesse di più, con la ragazza, ma,
sapete com’è: era una buona scusa per farsi abbracciare. La ragazza era pur
costretta ad appigliarsi a qualcosa, per non cadere per strada dalla
Lambretta...
Ezio poi, arrivato ai 18,
fu anche il primo a prendersi la patente ed a farsi la macchina, una
cinquecento, naturalmente bianca anche quella, ma la portò a scuola una volta
sola: ricevette il nostro benvenuto trovando subito una ruota a terra, cosa che
lo fece andare in bestia sul serio. Ma era di prassi.
In Israele i piloti dell’Aeronautica che fanno il primo “solo”, ricevono
catinelle d’acqua in testa e calci in... dai colleghi
veterani.
Quando arrivarono all’età, altri si aggregarono al
club dei motorizzati. Il Secco optò per la Vespa, ma
la maggior parte rimasero appiedati. Qua e là venivano
fraternamente caricati dai motorizzati (se il posto non era già occupato da
qualche ragazza).
Non tutti optarono per la
macchina. Giulio si comprò una Lambretta 150 e Vittorio, un “Roscio” del Primo una ‘Gilera’ tutta cromata (come la
canzone di Battisti). E fu qui che il Daniel si beccò
la fama di essere un “Portajella”.
Il Daniel era uno degli
‘appiedati’. Arrivato ai 18 non tentò nemmeno di
prendere la patente, per non correre il rischio di fare qualche incidente, che
gli avrebbe causato il ritiro del Passaporto. La Capitaneria di Porto (Sì, era
stato chiamato in Marina, pur non sapendo nuotare!) glielo aveva
concesso per soli tre mesi, e lui avrebbe avuto pochissimo tempo per uscire
dalla patria, come turista, immediatamente dopo la Maturità, per segnarsi
all’Università estera. Non era il caso di correre rischi.
Verso la fine degli studi, nel giro di due o tre giorni,
in due occasioni diverse. Vittorio e Giulio ‘caricarono’ il Daniel
per dargli un passaggio. Sulla via del ritorno, subito dopo averlo ‘scaricato’
a destinazione, “ingripparono”. Giulio si presentò a scuola con un vistoso cerotto sul sopracciglio e Vittorio “Gilera” si
ruppe una gamba (nel 2018, ritrovò l’ingessatura, corredata della firma del
Daniel, inequivocabile dimostrazione della veridicità dei fatti che vi stiamo
raccontando. La foto del reperto archeologico in questione è stata aggiunta agli
Aggiornamenti).
Fino alla fine dell’anno, ovviamente, nessuno corse più il rischio di dare un passaggio a quel Portajella.
Ci ricorda il Daddo che
la questione “portajella” aveva avuto un precedente
più serio. Nell’Agosto del ’68, durante le vacanze tra il Primo ed il Secondo, ci ritrovammo, un gruppetto di compagni nella
Pineta di Caltelfusano. Il Daniel
era attrezzato della sua solita bicicletta priva di freni. Uno di noi (non
ricordo chi) era motorizzato con un ciclomotore “Ciao”, un mezzo privo di marce,
con le maniglie del manubrio fungenti l’una da freno, l’altra da acceleratore.
Allora il casco non era d’obbligo. Il Daddo chiese ed ottenne di provare il “Ciao” e, presa (troppa)
confidenza, sorpassò spavaldamente il Daniel sul vialetto. Per sfregio lo
salutò focosamente, abbandonando la mano dall’acceleratore. Il “Ciao” protestò,
riducendo improvvisamente la velocità. Il Daddo si
aggrappò al manubrio con l’altra mano, azionando... il
freno. Risultato: Fu portato d’urgenza al Pronto Soccorso e poi all’Ospedale,
con una commozione cerebrale. Per sua fortuna (e per la bassa velocità) se la
cavò con poco. La causa dell’incidente, naturalmente
era stata la vicinanza del Daniel...
Tifosi e sportivi
Saltiamo di palo in
frasca. Con immenso rammarico dei pochi lettori, abituati alle nostre spesso
comiche avventure liceali, avverto che questo pezzo della Storia non sarà
particolarmente ilare. Direi, addirittura che, per alcuni di essi, che non ne
sono stati gli eroi, sarà persino noioso, ma, visto e
considerato che la nostra storia, originariamente pensata come l’epopea della
guerra contro Berta, è diventata, a furor di popolo,
l’epopea della nostra classe, non possiamo fare a meno di menzionare le
attività sportive, che per alcuni di noi, sono state parte indivisibili delle
esperienze di quei giorni.
Come in tutto il mondo, nella nostra classe
c’erano due tipi di sportivi, quelli che lo sport lo facevano per davvero, e
quelli che lo dicevano soltanto.
Il nostro sport principale era ovviamente il
calcio, praticato da tutti i ragazzi e da qualche ragazza. Il calcio veniva giocato in tre forme diverse. Quello vero e proprio,
praticato principalmente sul campo sterrato della Parrocchia, aveva in Nando e Ezio i principali campioni. Un secondo, quello di tipo “Balilla”,
detto comunemente bigliardino, era giocato sul campo “Lambusta”,
al “Buco” o dal “Fantasma” e veniva praticato a coppie
difensori-attaccanti, secondo un regolamento draconiano: Divieto di fare
“girello” (cioè di far ruotare le stecche più di 360°) e di toccare la palla in
gioco con le mani. I trasgressori venivano puniti con
il classico “rigore”, che obbligava la squadra punita ad alzare gli attaccanti,
mentre il difensore dell’altra squadra “sparava” un tiro micidiale con i
terzini, tiro che, se sparato da Giulio, piegava la “mano” del portiere ed
entrava in rete nel 100% dei casi. Giulio era, appunto, il miglior difensore
della scuola, e per questo in genere giocava in coppia col
Daniel, che pur essendo un pessimo giocatore, sapeva alzare tempestivamente
(non sempre) i suoi mediani ed attaccanti, prima del colpo da terzino di
Giulio. Superfluo dire che in caso di eccessiva lentezza da parte del Daniel, la palla veniva rimbalzata all’indietro,
causando spesso un autogol e l’ammonimento APAACE! Da parte di Giulio.
Altri ragazzi, specie il Mandrillo, il Secco e
Pierluigi, se la cavavano più che bene, chi in attacco, chi in difesa, per cui
la nostra classe era l’indiscussa campionessa del liceo. La partita consisteva
in dieci palline da giocare, con una moneta da cinquanta lire. Quando la palla
andava in gol, era persa. In alcuni casi era possibile estrarla con velocità e
destrezza dalla “rete” e rimetterla in gioco. Don Nicola era un esperto in
proposito. Il metodo veniva attuato dalla rapidissima
introduzione in porta della mano sinistra dell’attaccante avversario, mentre
contemporaneamente il portiere si spostava di lato con rapidità, per consentire
l’accesso della stessa, prima che la pallina scomparisse nel buco. Questa
tecnica veniva applicata, però, raramente, solo in
caso di momentanee ristrettezze economiche, perché era oltremodo pericolosa:
spesso e volentieri il portiere veniva spostato istintivamente dalla parte
sbagliata, acciaccando ineluttabilmente e dolorosamente le dita dell’estraente.
La normale “sessione” giornaliera consisteva in una dozzina di partite,
sponsorizzate equamente (alla Romana) da tutti i giocatori, centocinquanta lire
a testa. Questo per le partite “amichevoli”. Per le partite di campionato si
usava il metodo “Chi perde paga”. Durante le sfide ufficiali uno degli
spettatori fungeva da arbitro. Le nostre vittime preferite erano quelli della
B, meno bravi di noi, che “spellavamo” regolarmente, facendo
le dodici partite a spese loro.
Il terzo modo di giocare al calcio era quello
classico del tifo per la squadra preferita, fatto davanti alla televisione o, meglio, allo stadio la Domenica. Il tifo non era limitato
solo ai ragazzi. Per i più giovani va ricordato che alla fine degli anni ’60
l’Italia era in cima alla graduatoria mondiale di questo sport. I nostri eroi
avevano nomi leggendari: Rivera, Mazzola, Riva, Facchetti e chi più ne ha, più
ne metta. Un mese prima della maturità (e chi avrebbe potuto realmente
studiare?) ci fu quel famoso Mondiale in Messico che vide l’Italia battuta in
finale per 4 a 1 dal Brasile del grande Pelè, dopo la sofferta vittoriosa semifinale contro la
Germania di Haller e Schnellinger
e Beckenbauer (3 a 2 per l’Italia ai supplementari). Il Brasile si portò a casa
definitivamente, ma giustamente, con nostro grande rammarico, la Coppa Rimet a casa[2].
La nostra classe era formata da una compatta
maggioranza Romanista, eccezion fatta per Melibeo,
che era nientepopodimenoché... Laziale.
Il fatto è totalmente inspiegabile. Interista o Juventino si sarebbe potuto
anche capire, ma Laziale? La ragione di questa strana preferenza forse
ce la potrà dare lui. A quei tempi il campanilismo calcistico era molto ben
definito: o eri per una squadra di successo nazionale (Inter, Milan, Juve),
oppure eri per una squadra locale. Da noi la maggior parte del ‘popolo’ preferiva i colori sanguigni Giallorossi, mentre
gli snob dell’alta borghesia, optavano, per antitesi, per gli eterei colori
Biancazzurri. Laziali erano pure i ‘paesani’ originari dei paesini del
circondario. Don Pucci era Laziale, ma questo era un fatto accettato
amichevolmente, perché il simpatico Sacerdote era nato a Rocca Priora.
Anche le ragazze partecipavano blandamente al ‘tifo’, per lo più in relazione alla presenza di un
calciatore particolarmente ‘fico’ nella squadra del cuore. Michela, per
esempio, era Interista. Bisognerebbe chiederle se in questo c’entrasse il
famoso Facchetti.
Pochi e rari furono i ragazzi che si dedicarono ad
altri tipi di sport, soprattutto Atletica. A quei tempi alle Olimpiadi potevano
partecipare solo atleti “dilettanti”. Lo sport di professione era ancora (in
teoria) riservato al calcio, alla pallacanestro e al ciclismo. Naturalmente in
tutte le nazioni del mondo si provvedeva ad aggirare
questa regola anacronistica, col metodo ‘militare’. I campioni olimpici erano
segnati a società sportive dell’Esercito o della Polizia, ricevendo un
sostanzioso salario da graduati istruttori sportivi. Di fatto passavano il loro
tempo, allenandosi in attrezzatissimi apparati paramilitari, preparandosi per
le Olimpiadi e per i Campionati Europei e Mondiali di atletica. Una di queste
società sportive, Appartenente alla Guardia di Finanza, le “Fiamme Gialle”, era
basata nella grande caserma, situata sul viale omonimo. La caserma era ufficialmente
la Scuola Sottufficiali della GF, ma in pratica comprendeva un attrezzatissimo
campo sportivo con prato curatissimo e pista olimpica di tartan, l’ultimo grido
di quei tempi in fatto di piste sintetiche.
Le Fiamme Gialle
accettavano (forse per obbligo) di allenare una guardia di giovani atleti,
provenienti dalle scuole locali, su proposta degli insegnanti di ginnastica.
Alcuni della nostra classe, dal quinto al secondo liceo, andarono ad allenarsi
in quel magnifico campo sportivo un paio di volte alla
settimana, in varie branche di Atletica. In Terzo, poi, quasi tutti smisero,
dovendo riservare le forze ed il tempo libero, chi per
studiare per la Maturità, chi per dedicarlo alla ragazza. Quattro di noi
frequentarono gli allenamenti con una certa costanza: Albertone e il Daniel nella corsa veloce (100 e 200 metri piani e 110 metri
a ostacoli), Romolo (Mezzofondo e Corsa campestre) e Daddo
(Marcia).
Entravamo nella caserma, presentando il cartellino
di riconoscimento, salutati dalla sentinella, che usciva dalla garitta,
battendo i piedi sull’attenti. La cosa, all’inizio ci fece un po’ ridere, ma
poi ci abituammo persino a rispondere al saluto militarmente. Qualche volta uno
zelante ufficiale di picchetto, col nastro azzurro a tracolla, si degnava di salutarci
e ci chiedeva le tessere per un controllo. Sulla pista a volte ci capitava di
vedere qualche vero olimpionico in allenamento. Una volta trovammo un disco,
apparentemente dimenticato e facemmo una piccola gara, a chi riusciva a
mandarlo più lontano. Sì e no riuscimmo a lanciare
quei 7 kili a una decina di metri di distanza. Poco dopo apparve il campione
europeo Simeoni (quel disco non era stato lasciato lì
per caso). Ci venne istintivo abbassare la testa, vedendo quell’
UFO (Disco Volante) volare sulle nostre teste da una parte all’altra del
campo (in lungo), durante il “riscaldamento” di quel campione. Ci
ridimensionammo subito, ritornando alle nostre modeste attività agonistiche.
Alla fine del Primo il nostro insegnante di
Educazione Fisica riuscì a organizzare una vera e propria competizione sportiva
del Liceo, coronata da una partita di pallone dei Liceali contro gli
Universitari provenienti dalla scuola. Non mi ricordo il risultato, ma fu una
bella festa, tenuta allo stadio locale, con tutto il Liceo che faceva il tifo
sugli spalti. Non mi pare che le ragazze partecipassero in costume da
Cheerleaders.
La sessione di Atletica
fu ricca di avvenimenti agonistici, con la notoria
rivalità tra la sezione C e la B, che aveva anche lei una nutrita squadra di
velocisti. Ma noi avevamo Albertone, l’Invincibile.
Vinse senza contestazione i 100 e i 200 metri piani, lasciando dietro di lui di
alcuni metri il secondo ed il terzo classificato,
della B. Poi ci fu la ciliegina: la staffetta 4x100, della sezione C contro la
B (con la IV C in veste di comparsa). L’esito era incerto, per la presenza dei
due ottimi velocisti della B (Argento e Bronzo nei 100 m) da una parte, e del
nostro Albertone dall’altra.
La nostra sezione poteva presentare solo tre
ragazzi che si allenavano regolarmente: Albertone, il Daniel
ed un ragazzo del III C, di cui non ricordo il nome. Ma
era questione di Onore. Per quel tipo di gara non potevamo fare affidamento né
su Romolo, né su Daddo, che erano mezzofondisti.
Chiamammo in aiuto Nando, allenandolo, pochi minuti prima della gara, alla
bell’e meglio, alla tecnica di passaggio del testimone (fase critica nella
staffetta), assegnandogli la seconda frazione (rettilineo) e lo spassionato
consiglio: “Tu prendi il testimone dal Daniel, afferralo
bene (il testimone, non il Daniel) e corri, sempre dritto, come un matto. Alla
fine del rettilineo ti aspetta ... , che lo passerà ad
Albertone. Se non sbagli, è fatta, e l’Onore è
salvato!”.
Il Daniel era l’unico (con
Albertino) che conosceva la tecnica della partenza. Pur non essendo molto
veloce, non c’era scelta se non di dare a lui la prima frazione. Albertone
aveva da poco ricevuto in regalo un paio di scarpe chiodate “Adidas” nuove di
zecca dalla Società, per partecipare ad una imminente
gara regionale. La fortuna voleva che la sua misura di scarpe e quella del Daniel fossero uguali. Albertone concesse al Daniel, per quell’occasione fatidica le sue scarpe
chiodate vecchie. Gli altri corsero con le normali scarpe da ginnastica. Grazie
ai chiodi il Daniel si sentì volare. Passò il
testimone (contemporaneamente al primo frazionista del IV C e della sezione B).
Nando afferrò il testimone con tecnica perfetta (il che dimostra che, quando
voleva, sapeva imparare presto e bene) e corse come un matto, dritto davanti a sé. Passò il testimone con cinque metri di
vantaggio al terzo frazionista. Il resto è Storia. Un errore all’ultimo cambio
della B, e Albertone tagliò il traguardo quasi al passo, seguito all’onorevole
distanza di trenta metri dal... IV C ! Vittoria schiacciante della nostra
sezione, cadetti compresi!
La meritata medaglia d’oro non fu mai messa al
collo dei vincitori: la staffetta era stata l’ultima gara, e di medaglie ne
erano state acquistate dalla scuola quattro di meno. Il Preside ci chiese
gentilmente di rinunciare alle nostre, a favore dei giovani del Quarto. Niente
Patacche, ma ci è rimasta la Gloria!
Archeologi
In una zona poco costruita del Municipio (ex circoscrizione)
XIII del comune di Roma, agli incerti confini tra il XXXIII Quartiere (Lido di
Ostia Ponente) e la XXXV Zona (Ostia Antica) si estende una spelacchiata
pineta, piantata tra le erbacce, i cardi e qualche cespuglio di more. Ai tempi
della nostra Storia, per arrivare in quel recondito angolo del nostro quartiere
si imboccava la parallela a sinistra della Via del
Mare, il Viale dei Romagnoli, chiamato così in onore dei bonificatori che
all’inizio del secolo prosciugarono la zona della foce del Tevere. Qualche
centinaio di metri più avanti delle ultime case, si girava a sinistra,
immettendosi in una strada bianca, in direzione Nord-Ovest, chiamata Via
dell’Acqua Rossa. La strada bianca procedeva per diversi chilometri, piegandosi
a occidente e ricongiungendosi alla fine alla zona dell’Idroscalo, vicino alla
foce naturale del Tevere. Sulla destra di via dell’Acqua Rossa si intravedono in distanza gli estremi confini degli Scavi
di Ostia antica, il porto della capitale dell’Impero Romano. Agli inizi degli
anni ’60, con la costruzione dell’Aeroporto Internazionale Leonardo da Vinci a
Fiumicino, fu fatto, poco lontano da lì, uno svincolo sulla Via del Mare, che
portò alla luce, tra gli altri ritrovati, la Sinagoga Ebraica del II secolo
A.C.[3].
Questi nuove scoperte archeologiche fatte agli estremi confini dell’antico
porto di Roma, invogliarono altri dilettanti, appassionati di Antichità, a fare
le loro campagne di scavi private.
Alla fine degli anni ’60, dunque, troviamo i
nostri eroi a scarpinare su Via dell’Acqua Rossa. I tre procedono in fila
indiana, con in testa Normolo,
armato di pipa e di mappa topografica, dietro di lui Giulio, armato di pipa e
barba, ed in coda il nostro Daddo, armato di piccone,
senza pipa. Il loro aspetto non lascia dubbi[4]: i tre sono in cerca di reperti archeologici.
Di che reperti siano alla ricerca, questo è cosa
assai meno chiara. Forse del bottone perduto della tunica di Santa Monica[5],
da consegnare, poi, con compassata riverenza al Parroco[6]?
O forse di qualche ritrovato gettato giù con noncuranza dalla carrozza di quel
compassato[7]
imperatore? Ma gli esperti di Geografia ci diranno che la Via Severiana[8],
congiungente l’antico Porto di Ostia con quello di
Terracina, passa svariate centinaia di metri più a nord di via dell’Acqua
Rossa, accanto alla suddetta sinagoga. Di fatto come può essere constatato dalla cartina storica allegata[9],
la zona Acqua Rossa era, al tempo degli Antichi Romani, in pieno Mar Tirreno. Dunque i nostri archeologi cercavano reperti di un periodo
posteriore. Era questa una caccia alla ricerca delle radici? Per il nostro Leo
la supposizione tiene: circa un chilometro più a nord, a ridosso degli scavi
c’è il castello di quel famoso Papa omonimo del Nostro, passato alla storia
come protettore e sempre in discussioni vocifere con
quell’antenato del nostro Galassi[10],
che costruì di fatto, sia il suddetto castello, a
protezione del porto di Ostia contro le incursioni dei discendenti di Solimano
il Magnifico[11], sia
progettò la torre di S.Michele, che si innalza un
chilometro ad occidente, proprio alla fine di via dell’Acqua Rossa.
Ma insomma, Apaace!, basta –vero- con le tue cervellotiche et enciclopediche
elucubrazioni! Sarai punito il giorno del Giudizio Universale, per assillarci
cotanto! La risposta alle tue querimonie è molto più semplice:
Seguiamo alfine i Nostri sulla via del ritorno,
giungere finalmente stracchi e soddisfatti alla magione di Giulio. È lì, sul
far della sera, che si conclude la loro avventura,
accanto al caminetto, tra salsicce e lenticchie fumanti. È li
che, finalmente, si capisce cosa cercassero i nostri eroi: un po’ di rughetta,
ed il quarto per la partita a Tresette. Pazienza. I nostri tre archeologi, per
questa volta, se la faranno “col morto”.
La Maturità
In “Zona Cesarini”
Nonostante quanto possa pensare il Daddo, l’Unità d’Italia esiste solo sui libri di Storia. Il
Popolo che occupa quella regione del mondo a sud delle Alpi è solo
un’apparenza, un complesso mosaico di minoranze etniche, che hanno in comune
solo il “sì”. Anche questo con riserva: basta andare in su
ed in giù per la Penisola, per sincerarsi che la lingua cambia ogni pochi
chilometri. Anche lo stomaco e le altre parti del corpo: ogni città ha i suoi
piatti tradizionali, i suoi vini speciali, e soprattutto la sua Squadra del
Cuore.
Ma qualcosa in comune gli Italiani ce l’hanno: gli spaghetti al dente, il caffè ristretto, le
calze nuove nel primo cassetto, la Bandiera in tintoria... Come si fa a
spiegare ad un Francese, ad in Inglese o ad un... Israeliano il profondo
significato di quest’ultima sacrosanta verità: “La Bandiera in tintoria”?
Il Nazionalismo italiano dorme da sempre il sonno
dei giusti. Si risveglia solo quando la Nazionale Azzurra va’
a difendere l’Onore ai Mondiali di Calcio. E lì si ritira dalla tintoria il
Tricolore (che si era sporcato all’ultima partita allo Stadio), si spiega al
vento e... ci si siede davanti alla televisione a fare il tifo. E allora, guai a disturbare “l’Italiano Vero” con le piccolezze di
questo mondo...
Giugno 1970. La nostra classe si prepara agli
Esami di Maturità. “Si prepara... ??”. Come ci si può
preparare agli Esami, quando la Nazionale e’
impegnata nella fatidica conquista definitiva della Coppa Rimet?
Nona Edizione. Sedici squadre, suddivise in
quattro gironi. Tre squadre con due conquiste ciascuna (Italia, Brasile,
Uruguay), due con una singola conquista (Germania ed
Inghilterra). La regola del campionato dice che chi vince tre volte, si porta a
casa la coppa definitivamente. Il girone italiano comprende Svezia, Uruguay e
la cenerentola Israele, alla sua prima ed unica
apparizione, in rappresentanza dei Paesi dell’Asia-Oceania. I compagni fanno
qualche allusione sarcastica in direzione del Daniel:
“Allora chi vince, Italia od Israele?”. Apace
risponde con un diplomatico: “Io sono per il pareggio, purché l’Italia salga ai
quarti di finale!”. Italia-Israele finisce 0-0 e tutto va a posto. Ai quarti si
supera l’ospite Messico e si arriva alla fatidica semifinale contro la
Germania. La più sofferta partita della storia del calcio italiano: 4 a 3 per gli azzurri, dopo i tempi supplementari.
Come si fa a studiare Cicerone, quando la voce è
finita, urlando: “Forza Azzurri!” e le forze sono
esaurite sbandierando il tricolore in quella notte insonne dopo la favolosa
vittoria contro i “Crucchi” di Beckenbauer?
Siamo esausti. Come si fa ad affrontare il
“Paradiso” di Dante, quando i “Diavoli” gialli di Pelè
si portano giustamente la coppa Rimet a casa, dopo
aver strapazzato in finale una Nazionale Azzurra completamente svuotata di
energia, dopo la vittoriosa battaglia contro i discendenti del Barbarossa?
La Bandiera ritorna in tintoria,
si sfilano i “Bignami” dallo scaffale più alto e si cerca di consolarci,
ripassando la Storia: “... 1938 – La Germania occupa la Cecoslovacchia – I
patti di Monaco. La Francia protesta...”. Ma va’...
“1938 – l’Italia vince per la seconda volta la coppa Rimet,
in Francia, dopo averla vinta per la prima volta quattro anni prima contro la
Cecoslovacchia...”. La commissione d’esame accetterà questa versione della
Storia?
I Calcoli
Ripensandoci bene, i
“nostri” Esami di Maturità, in quella fatidica sessione di Luglio 1970, furono
una barzelletta. Non bisogna denigrare sempre quelli del Ministero della
Pubblica Istruzione per la mancanza di lungimiranza e per voler sempre fare
difficoltà agli esaminandi. Ne sia la dimostrazione il
fatto che il Ministero fece del suo meglio per renderci la vita facile,
affinché i nostri esami di Maturità non venissero a distrarci dall’impegno di
fare il tifo per gli Azzurri. Il Ministero si dette da fare con ben due anni
d’anticipo, dimostrando una capacità di organizzazione notoriamente inesistente
nella Storia del nostro Paese.
Negli anni 1969 e 1970 fu fatto un curioso
esperimento didattico: fino ad allora gli Esami di
Maturità erano stati una cosa molto seria. Al Classico si facevano tre prove
scritte e si portavano all’orale i programmi di tre anni di tutte le materie.
Chi superava l’estenuante prova, veniva considerato
veramente “maturo” per andare all’Università e diventare uno della Classe
Dirigente del Paese.
Con la Riforma didattica che aveva creato la Media
Unificata, qualcuno al Ministero si accorse che i primi rampolli della riforma
avrebbero dovuto affrontare gli Esami di Maturità nella sessione del 1971. Ma la Media Unificata non era più l’anticamera del Liceo elitistico
di una volta. Anche i metodi per misurare “La maturità” erano
cambiati completamente. Bisognava adattare i fatidici Esami ai tempi. Fu così
deciso di cambiare completamente la formula degli Esami di Maturità, in forma
“sperimentale” per due anni, per poi decidere se applicare il nuovo sistema in
forma definitiva. Fu messo l’accento sulla “qualità” invece che sulla
“quantità”. Ci si era ben resi conto che milioni di
date di battaglie e chilometri di letteratura latina dal “De Bello Gallico” a
Tacito, non dimostravano minimamente quanto lo studente fosse capace di
affrontare la vita moderna. In concomitanza con la Rivoluzione Studentesca, si
era arrivati finalmente alla conclusione che il/la
ragazzo/a diciottenne dovevano soprattutto dimostrare di saper pensare con la
loro testa, invece di dimostrare di essere dei pappagalli.
Si cominciò, quindi con la riduzione dei “programmi” da
portare. Per ogni materia, solo quelli dell’ultimo anno. Per il Classico le prove
scritte furono ridotte a due, e due sarebbero state pure le materie all’esame
orale, sulle quattro decretate dal Ministero a Pasqua. In teoria bisognava
studiarle tutte per ottenere l’Ammissione, ma in pratica chi si sarebbe sognato
di toccare le materie “non decretate”? Bastava ottenere la sufficienza,
facilmente ottenibile dall’insegnante in questione, che avrebbe messo,
naturalmente, l’accento sulla materia d’esame. Non solo, ma
delle due materie orali d’esame, una veniva “portata” dall’alunno, mentre la
commissione poteva scegliere una qualunque delle tre restanti, a patto che non
fosse quella (secondo il “suggerimento ministeriale”), “nella quale l’alunno
era più debole delle altre. Come dire: “lo
potete bocciare solo se è un solenne somaro”.
Per il 1969, primo anno dell’esperimento, il
Ministero decretò Italiano e Latino scritti ed
Italiano, Greco, Filosofia e Fisica orali. Una decisione logica: Italiano non
poteva mancare. Latino e Greco non potevano essere esclusi (uno di qua, uno di
là). Rimanevano le “materie minori”, l’una umanistica, l’altra scientifica.
Probabilmente al Ministero tirarono a sorte, come per gli accoppiamenti delle
squadre ai Mondiali.
Agli orali si poteva accedere se si erano superati
gli scritti. La commissione d’esame era formata da sei membri, cinque esterni
più l’Insegnante di Classe. La commissione doveva decidere, innanzi tutto, se
l’alunno avesse passato gli esami con successo, se, cioè era “Maturo”,
dopodiché ogni commissario dava un voto tra il 6 ed il
10, così che, se si superava l’esame, il voto andava da 36 a 60.
Gli Esami del 1969 furono ancora “tosti”. Non tutti i commissari avevano ancora capito lo
spirito della Riforma. Qualcuno infierì sui poveri esaminandi, e ci furono
alcuni “caduti”. Nel nostro Liceo furono “trombati”, tra gli altri, Cecco, Tina
ed Angelina, che si unirono gloriosamente alla nostra
classe in Terzo, per riprovarci di nuovo (per Cecco, terzo tentativo).
L’anno successivo dimostrò che al Ministero della
Pubblica Istruzione c’era gente che aveva capito lo spirito dei tempi cambiati.
Gli Esami di Maturità, a rigor di logica, dovevano
controllare “la maturità” dell’esaminando. Quale poteva essere la miglior prova di maturità,
se non quella di poter dimostrare di non lasciarsi confondere le idee dai
trucchi ministeriali?
Il Ministero fece con noi la prova del nove. Chi
ci fosse cascato, avrebbe dimostrato di non comprendere la Logica Italiana e,
giustamente sarebbe stato considerato un’Immaturo.
Le due domande d’esame più importanti, forse le
uniche domande reali, furono poste con la conclusone
della Maturità del 1969:
1. Quali saranno nella sessione del 1970 le due
materie scritte e le quattro orali?
2. quale sarà la materia che ti chiederà la
commissione?
La Risposta alla prima domanda sarebbe stata data
a Pasqua, quella alla seconda domanda, il Giorno del Giudizio, all’ora x.
Veramente? ... Manco pe’ gnente!
Si trattava di un tranello, per vedere se eravamo
maturi:
Le materie scritte erano scontate: Italiano e
Greco. Italiano non poteva mancare. Era d’obbligo. Latino e Greco si sarebbero scambiate di posto. Dunque Greco
scritto e Latino orale, insieme all’onnipresente Italiano. Due materie
“principali”. Rimanevano le materie “minori”. Storia,
ovviamente avrebbe preso il posto di Filosofia (uscita l’anno prima). Per le
Materie Scientifiche c’era più scelta: o Matematica o Scienze. Scelta
apparente, perché l’insegnante di Matematica-Fisica insegnava ben quattro ore
settimanali, contro le due dell’insegnante di Scienze. Quindi,
Matematica.
A Storia dell’Arte si poteva fare a meno: il
Ministero poteva controllare con comodità l’andamento
dell’esame di questa materia al Liceo Artistico.
Dunque la risposta alla prima
domanda era lapalissiana.
La seconda domanda era più difficile solo in apparenza.
Ovviamente dipendeva dalla materia scelta dall’esaminando, ma si ricorda
l’esplicita circolare ministeriale, che “pregava” la commissione di NON
interrogare l’allievo su quella delle restanti tre materie, nella
quale fosse più debole...
Per qualche alunno particolarmente dotato (o
particolarmente idiota) sarebbe potuto, sì, accadere di essere interrogato su
una delle materie maggiori, dopo aver portato l’altra, ma era chiaro che per la
maggior parte di noi ci sarebbe stata una materia
“pesante” ed una “leggera”. Bisognava quindi preparare solo due materie e non
quattro.
Per portare una “materia minore” ed essere
interrogati sull’altra, si avrebbe dovuto avere (Don
Renato mi perdoni l’espressione) un culo grande come il turbante di Solimano il
Magnifico.
L’esame del Daddo
Come volevasi dimostrare: fu proprio quello che
successe al Daddo. Portò Storia, la sua materia
preferita, e la commissione scelse per lui Matematica.
Ma le cose non stanno proprio così.
Come lui stesso ci racconta trent’anni dopo, La scelta della commissione fu
“concordata” dal Daddo stesso con la Prof Scerni, di
Matematica, l’insegnante di classe, membro interno della commissione. Mafia?
Non proprio. Mentre noi tutti facevamo finta di prepararci, tra una partita di
Mondiale e l’altra, a quegli esami da barzelletta, il nostro Daddo stava studiando molto seriamente, per prepararsi a
una prova ben più impegnativa: gli Esami d’Ammissione all’Accademia di Modena,
per i quali Matematica era materia d’obbligo. In vista della dura prova, chiese
e ottenne dalla Prof. di essere interrogato agli Esami
di Maturità, nella materia che, in ogni caso, stava studiando molto seriamente,
per tutt’altra ragione. E, giustamente, fu accontentato.
Il sudore che uscì dalle meningi spremute del
nostro futuro colonnello, per ottenere quel suo meritato 43,
fu solo un piccolo anticipo di quello che sarebbe sprizzato da tutti i pori del
Daddo nei prossimi anni.
L’esame del Daniel
Superati gli scritti, grazie ad una prova di Greco
piuttosto facile e alla innata capacità del nostro
cantastorie di trovare sul vocabolario le “parole chiave”, quelle che si
accompagnavano alla traduzione di intere frasi bell’e pronte, il Daniel
presentò agli Orali, ovviamente, Matematica. Non cadde nel tranello, quando gli
chiesero di usare la formula di Erone, per calcolare
l’area di un triangolo con lati lunghi tre, quattro e sette[12].
E finalmente arrivò il fatidico momento della scelta della commissione:
Italiano, come previsto. Sapendo della prossima emigrazione, furono oltremodo
benevoli: “Ci parli di un argomento a piacere”. Sia per solidarietà
professionale, sia per campanilismo, Apace aveva
preparato un poeta minore: Giuseppe Gioacchino Belli. Il
Daniel partì subito in quarta con una erudita dissertazione “apacica” sulla scrittura fonetica inventata da quel
rinomato scrittore di Sonetti Romaneschi. La commissione stette ad ascoltare
annoiata: tra i commissari non c’era nessun romano, probabilmente i professori,
il Belli non lo avevano neanche letto. Per qualcuno di
essi il monologo del Daniel sembrò quasi sicuramente
una dissertazione sulla semantica ostrogota. Dopo un buon quarto d’ora di
pallosa attesa che il nostro la finisse (se lo avessero saputo, gli avrebbero
gridato in faccia: “APAACE!”), il capo commissione, sbirciò l’orologio, sospirò
e lo interruppe: “Bene, ora ci dica del XXXIII canto del Paradiso...”. A causa dei Mondiali, Il Daniel aveva fatto a tempo a
leggere sul “Bignami” solo il riassunto dei primi trenta. “Mah, non mi ricordo
molto bene...”. Allora ci racconti del XXXII...”. “A dire la verità, nemmeno
quello me lo ricordo...”. “il XXXI...”. “Mah, credo...
forse... non sono sicuro...”. Il presidente della
commissione dette un’occhiata significativa
agli altri insegnanti e liberò il nostro dalla tortura. “Va bene, vada,
vada pure...”. Il Daniel aveva fatto la seconda, dopo l’esame di quinto
Ginnasio. Scena muta sulla Divina Commedia. Sarebbe Bastato?
Bastò.
La commissione lo
promosse con un misero 39/60, forse il voto più basso della classe. Ma anche la commissione sapeva che al nostro ‘Apace’ sarebbe servito solo il pezzo di carta. In Terra
Santa nessuno gli avrebbe contestato la sua ignoranza sul Paradiso dantesco.
E qui concludiamo la nostra Commedia, in
ringraziamento alla Divina Provvidenza che permise agli eroi del Terzo C di
disfarsi finalmente del Pace, mandandolo in Medio Oriente, con le parole del
Sommo Vate, che il nostro “Apaace!” non fece in tempo
a leggere sul “Bignami”:
A l’alta
fantasia qui mancò possa:
anche l’Apace è a corto di favelle,
per narrar come andammo alla riscossa,
e come
giunse ‘l Terzo C alle stelle.
[1] Questa è una ‘licenza poetica’. Di fatto
Albertone si aggregò solo in Quinto, ma da allora, ogni insegnante nuovo fece immancabilmente
la stupida domanda.
[2] Non racconterò in questa Storia ciò che
successe al Daniel due mesi dopo: appena entrato nella
camera assegnatagli ai dormitori dell’università estera, si trovò di fronte il
suo compagno di stanza, un Brasiliano, che lo accolse con un eloquente gesto
“all’italiana” (quello che si fa ponendo e staccando ritmicamente la mano
sinistra sulla parte interna del gomito del braccio destro, disteso in avanti),
ed un sonoro saluto, in perfetto Italiano: “UNO-DUE-TRE-QUAAATTTRO!!!”.
[3] Testimonianza che gli
antenati di “Apaace!” vivevano nei paraggi già dai
tempi di Pompeo. Il nostro Apace si ricorda che alla
rivelazione della scoperta contribuì anche suo padre, appassionato di
antichità. Quando il Daniel aveva circa dodici anni,
fu portato in loco in una piovosa e fangosa domenica di Inverno a fotografare
un candelabro a sette braccia, scolpito in bassorilievo. La testimonianza
fotografica, consegnata alla Comunità Ebraica, costrinse la Soprintendenza
Archeologica di restaurare la Sinagoga, innalzando le due colonne corinzie del
Tabernacolo.
[4] Riflettendo sulla somiglianza degli Italiani
con gli Israeliani, il nostro cantastorie non può fare a meno di constatare il forte legame tra spilungoni armati di pipa e
alti uffuciali dell’Esercito presenti e futuri: il più famoso archeologo
israeliano, il Prof. Yigaèl Yadìn,
(studioso della fortezza di Masada, ultima roccaforte
degli Ebrei contro la X Legione di Tito, nel 74 D.C.), era stato Capo di Stato
Maggiore dell’Esercito Israeliano. Il Generale Yadin
era uno spilungone perennemente armato di pipa.
[5] La Santa, madre di S. Agostino, il grande
Dottore della Chiesa Cristiana, morta ad Ostia, quando
il figlio, da poco convertito, si apprestava a salpare per la sua Missione in
Africa.
[6] Della Parrocchia di Lido di
Ostia Ponente, chiamata in onore della Santa.
[7] Settimio Severo, costruttore della Via
Severiana..
[8] Importantissima strada romana anche al tempo
dei nostri eroi: nel tratto che si inoltrava
nell’allora folta Pineta di Castelfusano, fungeva da
strada maestra per le coppiette che letteralmente si “imboscavano”, per paccare quietamente.
[10] Giulio II, protettore del
toscano Michelangelo, costruttore del castello di Ostia Antica.
[11] I Pirati Saraceni.
[12] Per chi non lo sapesse, tale triangolo ha area
zero!