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Scimmiottamenti  Danteschi

 

I  seguenti versi sono stati da me scritti in un epistolario con il caro vecchio amico Giulio Leoni, scrittore di gialli storici e creatore del personaggio di Dante Alighieri in veste di investigatore, nella sua tetralogia di romanzi "I Delitti della Medusa", "I Delitti del Mosaico", "I Delitti della Luce" e "La Crociata delle Tenebre".

 

Dato l'argomento trattato, ho scelto come metrica le terzine dantesche e come lingua una pseudo-lingua medievale dell'epoca del Sommo Vate.

 

Lo scimmiottamento si apre con una lunga lettera in rime di uno stilnovista minore contemporaneo di Dante, il poeta ebreo Manoello Romano, nella quale Manoello si "congratula" con Dante per la scrittura del suo primo libro.

 

La risposta di Dante a Manoello, scritta probabilmente per educazione, è molto più concisa, ma come d'uopo tra poeti, anch'essa in rime.

 

Quando l'amico Giulio mi fece sapere della pubblicazione del suo secondo romanzo dantesco "I Dellitti del Mosaico", ne ordinai una copia, che mi lessi tutto d'un fiato durante una traversata transatlantica a New York.

Ritornato a casa, pensai di "riscrivere" "I delitti del Mosaico" in versi, così come lo avrebbe scritto il Sommo Vate. L'opera mastodontica non venne mai portata a termine, limitandosi ai primi quattro capitoli del romanzo.

Per comprendere le terzine de De Mosaici Delicto è quindi necessario leggere prima "I Delitti del Mosaico".

 

Dopo la pubblicazione del terzo romanzo "I Delitti della Luce", passarono alcuni anni, e l'ultimo romanzo della tetralogia "La Crociata delle Tenebre" uscì circa sette anni dopo la pubblicazione del primo romanzo. Uno dei personaggi della "Crociata", ambientata a Roma nel 1301, è un Manoello, che volendo potrebbe essere anche identificato con il poeta ebreo romano contemporaneo di Dante.

Il romanzo descive il periodo dell'inizio dell'esilio di Dante, che, nell'incertezza della sorte, avrebbe potuto scrivere un testamento spirituale e nasconderlo, interrandolo tra i ruderi della Sinagoga di Ostia Antica, dove settecento anni più tardi sarebbe stato scoperto da Giulio. La sinagoga si trova nei pressi di quel Lido di Ostia, che fu il campo di battaglia delle gesta giovanili di Giulio e del sottoscritto…

 

Ringrazio, Giulio, per aver scritto i suoi avvincenti romanzi e per avermi dato il pretesto di scimmiottare il Sommo Vate.

 

 

 

 

Lettera in rime

scritta a Dante da Manoello Romano attorno all’anno 1315.

 

 

Messer Durante, Vate Fiorentino,

de tutti ‘l più sublime e lo meliore.

Ve porto li saluti del bon Cino,

 

lo quale vi ricambia con ardore,

l’amistade che tanto bella pare,

trattando noi di cose dell’amore

 

in quello stile novo del volgare.

Voglia Messer Durante aver pazienza

se la missiva melitiosa appare,

 

imperrocché non posso scriver senza

esternarvi la grande ammirazione

et il rispetto ch’ho di vostra scenza,

 

da cui umilmente apprendo la lezione.

Il Cino visitando quest’inverno,

mi dette lui, fortunata occasione,

 

ne le mani lo scritto dell’Inferno

della vostra Commedia, opera fina,

che sarà, senza dubbio un Canto Eterno,

 

‘sì che proposi chiamarla Divina.

Sapete voi che ‘l culto diverso

di due poeti, di certo non mina

 

l’amistà, nel comune fato avverso.

Com’ anche voi, girovago mi vado,

lontano dalla patria, in dritto e in verso,

 

per le belle cittadi ed il contado

di questa terra dove il sì si sona.

Com’anche voi, gettando a volte il dado,

 

scelsi la via, che mi portò ad Ancona,

ad Assisi et a Fermo et a Fiorenza

et alla corte di Cane, a Verona,

 

dov’ebbi, invero, ‘sì bona accoglienza,

che vi consiglio di andare in quel regno:

sa lo Cangrande di vostra sapienza

 

anch’elli essendo un omo d’ingegno,

et vi considera un omo eletto,

de tutti i vati di certo il più degno.

 

Ei vi considera, così ha m’ha detto,

di tutti i grandi, il Maggior Fiorentino,

da che l’Inferno con gran gusto ha letto.

 

Non vi disturbi che li è un Ghibellino,

lui stesso disse, per esser sinceri,

che i gran nemici del vostro destino

 

furono Guelfi in Fiorenza, que’ Neri,

che vi cacciarono dalla magione.

I Ghibbellini, invece, i veri,

 

da’ Guelfi uccisi là nella regione,

a Campaldino, ne’ pressi d’Arezzo,

non furon morti per la religione,

 

ma colla vita pagarono il prezzo

dell’ingordigia di vostra Fiorenza.

Questo, oramai, lo sapete da un pezzo

 

e ‘l fatto pesa su vostra coscenza.

Ma non v’accuso certamente io,

né metto a prova la vostra pazienza,

 

essendo, me medesimo, Giudìo,

‘che, pur essente l’credo differente,

entrambi noi crediamo nel Bon Dio

 

e che perdona Lui lo penitente.

Chiedo mercede, et vi voglio parlare

d’una questione assai differente:

 

Cino vi invita a venirci a trovare

per dilettarlo con vostra sapienza.

Quivi in Siena, volendovi stare,

 

c’è l’occasione di far conoscenza

d’altri messeri e leggiadre donzelle.

Che non vi pesi l’età e la coscenza

 

nel presentarvi di fronte a ‘sì belle,

imperrocché quivi in Siena ‘sì s’usa.

Siamo assetati di vostre favelle

 

e di comprendere come la Musa

vi suggerì, vo’ saperlo pur io,

la soluzione del Caso Medusa.

 

Come è costume del popol Giudìo

Io vi saluto, baciando la mano,

‘ché genuflettermi io po’ solo a Dio.

 

Con Amistà, Manoello Romano.

 

 


Dante rispose educatamente alla lettera di Manoello con questa:

 

Risposta di Dante a Manoello Romano

 

Messere Manoello, lo Giudìo,

che lettera da Siena mi mandate,

lo spero che, per Grazia del Bon Dio

 

la salute v’assiste, e bene state.

Pur troppo, che io possa, non mi pare,

venire a visitarvi quest’Estate,

 

che già nel celo terso a noi ci appare,

né visitarvi poscia, nell’Inverno,

perché, purtroppo, ho molto da fare.

 

In fatti, dopo aver scritto l’Inferno

E ‘l Purgatorio, che legger v’avviso,

sono molto occupato, al tempo odierno

 

a scrivere de’ Santi il Paradiso.

Ciò non di meno, venga l’ora bona

Che la posso incontrare, viso a viso,

 

forse nell’anno prossimo, a Verona,

da Cangrande, se voi lo consigliate,

‘ché, come dite, la Nobil Corona

 

apprezza invero quest’umile vate.

In tanto metto il Cane sulla lista,

se lo vedete prima, ringraziate.

 

Qui, nella speme d’incontrarci a vista,

vi prego salutare il caro Cino,

comune amico e valido giurista.

 

Durante di Alighiero, Fiorentino.

 

 

 

 

 

 


 

 

De Mosaici Delicto

(La lettura di questo poema apocrifo di Dante Alighieri deve essere preceduta da quella dei primi quattro capitoli de “I Delitti del Mosaico” di Giulio Leoni).

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita,

nell’anno del Signor Mille e trecento,

appena eletto alla carica ambita

 

di Prior di Fiorenza, un tristo evento

la notte insonne mia venne a turbare.

Il quindici di Giugno, mi rammento,

 

mentre le scienze io stavo a studiare,

ecco il Bargello bussare alla porta.

Quel disgraziato mi venne a chiamare,

 

al fin d’accompagnarmi, con la scorta:

“Venga, Priore, la prego, sin duda,

abbiam trovato una persona morta

 

nella vecchia Cappella di San Giuda,

e lei, che se n’intende di Latino,

potrà scoprir la veritade nuda:

 

c’è un morto ucciso, e quindi un assassino,

ma il delitto è davvero cosa strana:

hanno ammazzato il Mastro Comacino,

 

e forse c’è la mano di Satàna.

Messer Durante, è grande la questione,

e forse, Lei decida, non è umana:

 

a mio parer la Santa Inquisizione

dovrebbe investigar questo delitto...”

“Il tempo al tempo, grande pelandrone!-

 

Risposi al quel Bargello derelitto-

Non affrettarti, ma porta pazienza!

Puniremo il misfatto di Diritto,

 

se spiegar lo potremo con la scienza,

intanto, caro mio stolto Bargello,

lasciamo il Papa fuori da Fiorenza!”

 

M’incamminai, seguendo quel drappello

che, pavido,  s’andava a passo lento.

Giunti a San Giuda mi dissero: “È quello!”.

 

Entrato lì, m’apparve, mi rammento,

sul muro, la figura d’un gigante

dall’aurea testa e dal busto d’argento,

 

mentre il resto del corpo sottostante

era di ferro, nero come il fiele,

e infine, poi, all’argilla somigliante,

 

d’un color che ricorda molto il miele.

D’un tal gigante, di metallo e stucco

Si parla pur nel Libro di Daniele,

 

o forse, del Profeta Cabacucco,

comunque nell’Antico Testamento,

ch’apparve in sogno un giorno al Re Nabucco.

 

Ma lì a San Giuda, in quel cupo momento,

quella figura alta e maestosa

di tessere incollate col cemento

 

volea significare un altra cosa:

un messaggio vitale et incompiuto,

una scoperta ‘sì forte e grandiosa,

 

che, quando il mondo l’avesse saputo

il Fato Umano sarebbe cambiato.

Il Comacino, avendo voluto

 

rivelar quel segreto, fu ammazzato.

Già venne l’alba. Il lungo camminare

e la vision del morto avean stremato

 

la mente mia, già fiacca dal vegliare,

così ch’andai cercando uno speziale,

per prendere una droga ed alleviare

 

un poco quel dolor, ‘ché molto male

avevo in capo, sotto la criniera.

L’aconito col pepe ben si vale

 

a far fluire fuor la bile nera.

‘Sì, presso la Fontana della Morte

conobbi quel Teofilo Sproviera.

 

Elli mi disse: “Ho qui, per bona sorte,

per lei, messere, nuova medicina,

quasi miracolosa, molto forte:

 

potente più della Turca Assassina,

meliore del papavero d’oriente,

che portan gli infedeli dalla Cina”.

 

Ora so che quel farmaco potente

proviene da una terra misteriosa

che scopriron gli antichi in occidente.

 

Però non voglio anticipar la cosa,

dirovvi sol che quella strana manna

in quel sito remoto cresce a iosa

 

e chiamasi in latino ‘Doppia Canna’,

o pur ‘La foglia dalle nove dita’,

o pure ‘l’Erba di Maria Giovanna’.

 

Essendo l’emicrania dipartita

e finalmente lucido ‘l pensiero,

presi ad esaminare con le dita

 

le carte di quel mastro, ed ecco, in nero

s’un foglio di pregiata pergamena,

io vidi la figura d’un veliero,

 

ecco la chiglia, ed ecco una gomena,

e poi la vela, gonfia di Mistrale,

ma a guardarla mi prese grande pena,

 

e riprese la testa a farmi male,

‘ché quella vela e l’albero, anche quello,

erano cosa del tutto irreale,

 

sporgendo entrambi da sotto il vascello,

come se il vento fosse sotto il mare.

Mi sentivo più stolto del Bargello,

 

ma ripresi il disegno ad osservare

e d’improvviso vidi, da una parte,

un segno noto. Quel particolare

 

era una stella, disegnata ad arte,

era Venus, la stella del mattino,

e dell’occaso, che mai si diparte

 

dal Sole, e gli rimane ben vicino,

mentre, nel Terzo Cielo ‘sì vagando,

percorre lentamente il suo cammino.

 

M’accorsi qui che stavo divagando,

per ciò decisi di tornare al sodo

ed altri indizi quindi andai cercando.

 

Volli capire, innanzi tutto il modo

e la ragione di cotal lavoro,

e quale fosse il nesso, e quale il nodo,

 

e chi pagasse il prezzo di quell’oro

e chi pagasse il prezzo dell’argento,

s’eran fiorini, o soldi del Moro,

 

i fondi per pagare il monumento.

Chiamai Ser Duccio, il calvo segretario,

che teneva dei conti ogni memento,

 

in ordine, nel libro dell’Erario.

Elli mi disse ch’era a conoscenza

dei preventi, ed aprendo quel diario

 

mi disse: “È per lo Studium della Scienza,

tal qual ce n’anche a Roma ed a Bologna.

Il Papa vuol che l’abbia anche Fiorenza,

 

‘ché di saper di Scienza c’è bisogna

in tutte le città de li Cristiani.

Il Papa pensa che sia una vergogna

 

che sian più dotti oggi que’pagani

d’Ispagna, dell’Egitto e di Sorìa,

che gli eredi di Roma, l’Italiani.

 

I soldi, poi, per tale maestria,

come l’opra del Mastro Comacino,

non vengono da noi, ma d’altra via,

 

‘ché non ci spende Fiorenza un fiorino.

Credo che siano soldi dei Dottori

del Collegio, non gente di vicino,

 

ma tutti dotti venuti da fuori,

per esempio Sproviero, lo speziale,

ch’è ricco certo, ad alleviar dolori...”

 

Duccio s’avvide d’aver detto male,

e s’azzittì, ‘chè lo colse il pensiero

ch’anch’io appartengo a quell’Arte Spetiale.

 

Io lo interruppi: “Che dici? Davvero,

ciò che favelli importanza può avere!

Di quel Collegio fa parte Sproviero?

 

Va’ pure adesso, ma voglio sapere

ogni cosa sui membri del Collegio!”.

Lo licenziai, per andare a vedere

 

come avesse Sproviero il privilegio

di fare parte di ‘sì dotta lega:

s’era speziale di cotanto pregio,

 

o se ci fosse sotto qualche bega,

e c’era un modo solo, in fede mia:

andar di nuovo a cercarlo in bottega.

 

M’accolse con garbata cortesia

e m’invitò a venire quella sera

da Baldo, dal crociato, all’hostaria,

 

al vespro, infatti, la riunione c’era

de’ Dotti del Collegio, a desinare.

Andai. E come fuor de l’atmosfera.

 

Mi ritrovai, d’improvviso a vagare

pel Terzo Cielo insieme a Sproviero,

‘ché riconobbi, seduti a cenare,

 

dotti dei quali già sapevo invero,

ognuno grande in la sua propria scienza,

ognun di loro, però, forestiero:

 

‘ché niun di loro era nato in Fiorenza.

Eran quei dotti uno strano serraglio,

‘ché riconobbi, nei volti, parvenza

 

di can , di volpe, di scimmia e, non sbaglio,

aquila pure, e cavallo e leone.

Si presentaron, passandomi al vaglio,

 

ma col rispetto di detta occasione:

erano Menico, il Naturalista,

Bruno, Teologo, in saio marrone,

 

poi ancora Antonio, famoso Giurista,

Iacopo, noto Architetto romano.

Si presentarono, in fondo alla lista,

pure Verniero, del mar Capitano

e Cecco d’Ascoli, ch’era il Rettore,

Medico e dotto degli Astri e d’Arcano,

 

e, tra li Pari, il Primo e ‘l Maggiore.

M’ero seduto allo scanno pria vuoto,

quando mi colse uno strano rumore,

 

al tempo stesso vicino e remoto,

di tamburello e di dolce metallo.

Ella ci apparve, nel lento suo moto,

 

ci venne incontro, a passo di ballo

quella bellezza, lasciandomi muto:

d’onice gli occhi, ed il corpo, cristallo.

 

Ma, d’improvviso, un urlo acuto,

‘ché ‘l monco Baldo, sì, l’hoste Crociato

un ebbro, ardito di più del dovuto,

 

pei colleoni aveva afferrato

E, trascinato l’incauto meschino,

fuori di porta l’aveva buttato.

 

Antilia, intanto, venuta vicino,

mostrava ai Dotti la propria bravura,

le mosse ardite d’un Ballo Divino.

 

Gira e rigira, la sua copertura

Fatta di veli, s’aprì come un fiore,

pure mostrando la sua Selva Oscura...

 

Vorrei continuar a dir d’Amore,

ma pongo fine quivi a mie favelle,

‘ché nella testa sento un gran dolore,

 

un’emicrania, da veder le stelle.

 


 

 

Testamento spirituale di Dante

 

La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove,

 

ma in questi tempi, qui in Roma, si vende

la gloria di Colui, per poco prezzo

e in fondo al fiume e sotto terra scende.

 

A tali cose invero, sono avvezzo,

da' miei giorni di gloria a Campaldino,

quando pugnavan Fiorenza ed Arezzo.

 

Or, come allora, sentendo vicino

al corpo e al core l'odor della Morte,

io, Durante, poeta fiorentino,

 

incerto del doman, della mia sorte,

di riveder dell'amata Fiorenza

i campanili e le secure porte,

 

non vaneggiando, ma in piena coscenza,

voglio lasciare per iscritto, in versi,

ché in futuro se n'abbia conoscenza,

 

la rimembranza di fatti perversi

che accaddero, e che accadono tuttora,

per circostanze e motivi diversi.

 

Queste membranze io celo, per ora,

in un loco segreto, scelto apposta,

fin ché sian discoperte e tratte fòra.

 

È questo loco, vicino alla costa,

presso 'l sepolcro  del corpo terreno

di Santa Madre del Dottore Agosta.

 

È questo un loco tutt'altro che ameno,

eppure un dì fu sacro a li Giudei,

ora è sepolto da mill'anni almeno.

 

Or dunque, io celo questi scritti miei

in questo loco, e quivi giaceranno

fin che a la patria ritornin li Ebrei.

 

In  loco a loro sacro dormiranno,

a detta del poeta Manoello

ne la sua lingua, e non si troveranno,

 

prima che scorra un "scivatàim[1] jovèllo[2]":

(due volte sette volte cinquant'anni,

questo vuol dir, nella lingua di quello).

 

Quattordici generazioni d'anni,

ci fûr tra Abramo e Davide il Regge.

Quattordici generazioni d'anni,

 

e a Babilonia fu menato il Gregge,

quattordici generazioni, infine,

e il Cristo ci portò la Nuova Legge[3].

 

Settecent'anni, tra queste rovine,

le mie parole sanno sepolte,

finché saran trovate, tra le spine,

 

e da pia mano saranno raccolte.

L'uomo che l' troverà, le trarrà fuori,

vedrà che sono grandi e sono molte,

 

poscia, in sei anni di duri lavori,

dopo averle riscritte, e aver sudato

portà lui riposarsi sugli allori.

 

Sei anni, come i giorni del Creato,

trascorreranno, come fece Iddio,

che al sabbatico[4] dì s'è riposato.

 

Sarà quest'uomo, ve lo dico io,

della Musa un autentico campione,

ché grande dono averà dall'Iddio.

 

Sarà un Leone, figlio di Leone,

gemello a quella fiera certamente,

ché, nato sotto il segno del Leone,

 

a mezza notte, avrà per ascendente

i Dioscuri, la mia costellazione:

Non sol sarà leone nella mente,

 

ma del mio spirto sarà la magione.

 

 



[1] Scèva=7. Scivatàim=duale di 7=due volte sette. Nella Bibbia ha il significato di "moltissimo".

2 Jovèllo, in Ebraico: Iovèl= 50 anni. Da cui deriva Giubileo.

[3]  Ved. Matteo, 1.

[4]  Gli anni ebraici 5761 (iniziato ad Ottobre 2000) e 5768 (iniziato ad Ottobre 2007), sono Anni Sabbatici.