Gli Snobili
Quando
gli Snóbili leggeranno questo pezzo, si offenderanno a morte, ma, da Snobili
che sono, non lo daranno minimamente a vedere.
Nella
migliore delle ipotesi, qualcuno di loro osserverà, in tono di malcelata
sufficienza: "Lo conosco… è sempre stato un buontempone!". Nella
peggiore delle ipotesi, qualcuno di loro non mi rivolgerà più il saluto, ma
questo non rappresenta per me un grosso problema, perché, in quarant'anni e
passa di reciproca conoscenza, ci siamo rivolti al massimo un frettoloso
"Ciao!" qua e là, nella rara occasione del matrimonio di qualche
conoscente comune.
La
storia degli Snobili comincia quattro o cinque generazioni fa, a meno che non
abbia radici più antiche. Il luogo: Roma. Il periodo storico: la fine del
diciannovesimo secolo. Il contesto: L'emancipazione degli Ebrei Romani.
Gli
Ebrei Romani, chiusi nel ghetto per 315 anni, si trovarono ad essere Liberi
Cittadini Emancipati nel 1870, quando Roma fu finalmente unificata all'Italia.
Superfluo
dire che, appena usciti dal ghetto, gli Ebrei Romani, come tutti gli altri
ebrei del periodo, fecero del loro meglio per integrarsi nella popolazione
generale, pur mantenendo una coesione di gruppo, esistente ormai da quasi
duemila anni. Va ricordato anche che gli Ebrei Romani erano stati, nel corso
dei secoli, una comunità del tutto particolare, in quanto, in un modo o
nell'altro, erano stati sempre i "protetti" del Papa. Sotto un certo
punto di vista, si può dire, poi, che gli Ebrei Romani rappresentavano la
naturale continuazione di quel Volgo che, a partire dal tempo degli Antichi
Romani, era stato una particolarità tutta romana: un popolino sempre a stretto
contatto con i "Grandi", i leader della storia europea, al punto di
essere gli unici a vederli anche nelle loro "piccolezze". Di gente,
insomma, da cui non nacquero i Giulio Cesare, ma certamente nacquero i…
Pasquini.
Non
me ne vogliano a male, dunque, gli Snobili (che si credono ancora gli eredi
dell'autore del De bello Gallico), se quest'umile Pasquino si permette
di raccontare la loro storia… a modo suo…
I
Tre Ceti
Per
quanto ne sappiamo, fintanto che gli Ebrei Romani rimasero chiusi nel ghetto,
non esistevano fra loro vere e proprie differenze di casta, in quanto si
trovavano tutti nella stessa barca. I mestieri erano quelli che erano: umili
straccivendoli ed usurai malvoluti dal resto della popolazione. Qualcuno di
loro stava meglio degli altri, possedendo qualche palazzo malconcio in ghetto.
Alcuni, spesso di origini forestiera, avevano delle funzioni ufficiali: erano,
insomma i leader riconosciuti della Comunità, sia perché Rabbini e Maestri, sia
perché aventi conoscenze e relazioni con le Autorità esterne.
Benché
non si trattasse di una casta vera e propria, alcune famiglie erano, insomma,
al di sopra del "popolino", che le accettava come leader. Ma nel
ghetto tutti erano a contatto con tutti. Tutti conoscevano tutti. E tutti
parlavano come lingua madre quel dialetto Giudaico-romanesco, cristallizzato da
trecento anni, un misto di dialetto romanesco medievale e di ebraico storpiato.
Ottimo per non farsi capire dai "Chiusi" (gli incirconcisi).
Non
appena emancipati, gli Ebrei Romani fecero del loro meglio per integrarsi tra i
normali cittadini della capitale. Qualcuno riuscì a farlo più in fretta e
meglio degli altri, al punto che in breve, pur rimanendo un'entità
"etnica" ben definita in seno alla popolazione generale, gli Ebrei
Romani andarono formando tre gruppi ben distinti.
Il
primo gruppo è quello che diede origine agli Snobili.
Il
secondo gruppo è quello che veniva chiamato ancora al tempo dei miei genitori
"quelli di basso ceto".
Il
terzo gruppo, che in effetti rappresentava la maggioranza degli Ebrei Romani,
compresi i miei antenati, erano quelli di mezzo, quelli che non hanno mai avuto
una denominazione particolare.
A
cavallo tra il XIX ed il XX secolo, la maggior parte degli Ebrei Romani Non
poteva, per ovvie ragioni, entrare a far parte della "Nobiltà" cittadina,
dove per nobiltà intendo, naturalmente, non solo le vere e proprie famiglie
nobili, ma anche gli "Arrivati" in generale. Gli ebrei più dotati si
integrarono al massimo nella media borghesia, quelli meno dotati rimasero a far
parte del "popolino". Gli ebrei più dotati sfruttarono principalmente
le loro capacità intellettuali, diventando soprattutto liberi professionisti.
Mandarono i loro figli a studiare e questi diventarono soprattutto Avvocati,
Medici e, non pochi di essi, Insegnati o addirittura Docenti Universitari.
Le
professioni in questione passarono naturalmente di padre in figlio, aggiungendo
anche un discreto benessere economico e trasformando diverse persone di questo
gruppo di "winners" in membri della borghesia medio-alta.
Il tirocinio
delle nuove generazioni di questa nuova "casta" era in genere quello
del Liceo Classico e dell'Università. Medicina e Giurisprudenza a parte, molti
di loro andarono, naturalmente, in direzione delle Lettere, in vista di una
carriera da "Civil Servants" o dell'insegnamento.
Naturalmente,
il tirocinio prima, e la professione poi, li pose in una posizione di
preminenza intellettuale nei confronti della rimanente Comunità, quindi, in
modo del tutto naturale, essi occuparono anche le posizioni di maggior
prestigio in seno alla stessa.
Come
vedremo tra poco, questo stato di cose ha superato, senza subire troppi danni,
anche la bufera della Seconda Guerra Mondiale, fino all'entrata in gioco di un
nuovo inaspettato fattore esterno, una generazione dopo la fine della stessa.
A
questa élite intellettuale, si contrappone quel gruppo di Ebrei Romani che per
ignavia o per mancanza di possibilità, non uscì mai dal ghetto. Un gruppo che
rimase abbarbicato come una tellina allo scoglio della tradizione pre-ghetto,
conservando gelosamente il dialetto Giudaico-romanesco, dialetto che nel resto
degli Ebrei Romani andava naturalmente scomparendo piano piano. Gente che
continuava ad occuparsi di umili lavori, che non andava a studiare al Classico
e che certamente non pensava nemmeno all'Università. Col tempo, comunque, non
pochi di loro riuscirono bene negli affari, diventando proprietari di negozi
ben avviati. Alcuni raggiunsero una posizione economica non inferiore, anzi
spesso parecchio superiore a quella dell'élite intellettuale. Ma erano pur
sempre "Gente di Basso Ceto" o, detto in Giudaico-romanesco:
"Negri de Canapetta".
Questi
due "ceti" degli Ebrei Romani sono quelli che hanno conservato meglio
degli altri l'identità dell'antichissima Comunità: i primi per il loro
carattere "intellettuale" che li ha spinti a studiare a fondo la
tradizione ebraica in generale, come Studiosi e come portavoce dell'identità
ebraica nei confronti dei Gentili. L'élite ebraica romana era quella a cui si
sono sempre rivolti i non ebrei nelle loro relazioni con la Comunità.
Buona
parte di questa élite, insomma, se non proprio religiosa, conservava la
Tradizione come un tesoro culturale, e ne andava fiera, conservando, però, al
medesimo tempo, le debite distanze dagli Ebrei Romani di "basso
ceto".
Quelli,
dal canto loro, conservavano anch'essi la Tradizione, in forma più
cristallizzata. Non si potevano certo definire "gente colta", ma sono
stati certamente loro quelli che hanno trasmesso, per qualche generazione
ancora, l'identità dell'Ebreo Romano DOC, quello che esisteva prima
dell'apertura del ghetto.
A
parte questi due ceti ben definiti ed, ognuno a modo suo, conservatori della
Tradizione, restava la maggioranza degli Ebrei Romani, quelli che conoscevano e
praticavano la Tradizione in modo sempre più approssimativo. Quelli che
mandavano ancora a studiare il figlio tredicenne da qualche rabbino dell'élite
per il "Minian", ed amavano mangiare la "Pizza di Piazza",
ma che di sabato andavano in macchina e si vedevano al tempio solo per Capodanno,
Yom Kippur e per i matrimoni di famiglia.
Questo
"ceto di mezzo" (o, con un paragone preso dalla Rivoluzione Francese,
questo "Terzo Stato") era parecchio eterogeneo. Comprendeva
proprietari di negozi ben avviati, agenti di commercio e professionisti vari.
Alcuni studiavano ed andavano a fare l'università, altri imparavano qualche
professione più pratica o seguivano le orme dei genitori in quello che facevano
loro. Insomma erano gente normale, che aveva un legame piuttosto elastico con
la Tradizione e la religione in genere, ma era pur sempre gente che ci teneva
ad immedesimarsi con la Comunità. Gente che non sapeva un'acca di ebraico,
eppure che ci teneva ad incontrarsi al tempio per le feste, facendo finta di
pregare. Gente che a Pesach andava a comprare le azzime in Comunità e che
sapeva cucinare ancora bene i carciofi alla giudìa. Ebrei Romani che
conservavano una parvenza dell'antica Tradizione senza comprenderne esattamente
il significato. Gente che insegnava ai figli che a Pesach è vietato mangiare la
cioccolata, ma che rispondeva al perché degli stessi con un "Perché c'è
dentro la fecola di patate" (la cioccolata non contiene affatto la fecola
di patate, che tra l'atro è perfettamente Kasher a Pesach!). La vera ragione
della tradizione di questo peculiare divieto l'ho capita molti anni più tardi,
quando mi sono reso conto che siccome Pesach cade, naturalmente, nel periodo
della Pasqua cristiana, l'idea del divieto era nata per evitare che i ragazzini
chiedessero in dono le uova pasquali (soprattutto la "sorpresa"),
chiaro simbolo della Pasqua cristiana…
Va
detto che questa divisione in "ceti" in seno alla Comunità, nata dopo
l'emancipazione, non era molto dissimile da quella della popolazione generale.
Specie a Roma, va ricordato, dopo l'unificazione dell'Italia, arrivarono molti
immigrati dalle altre parti del Paese, ed anche questi si integrarono nei vari
ceti, secondo le loro possibilità e le loro capacità. Resta il fatto che la
creazione di ceti sociali in seno ad una comunità preesistente ed omogenea è
una cosa un po' curiosa. Comunque contro i fatti non si discute.
La
divisione tra i ceti, come l'ho descritta, esisteva certamente prima della
guerra. Ne ho avuto recentemente una prova sicura: in un libro di memorie
scritto da un Ebreo Romano, nato poco prima della Prima Guerra Mondiale,
appartenente, se vogliamo, al "ceto di mezzo", l'autore scrive come
all'inizio anni trenta (quindi molto prima delle Leggi Razziali) fosse stato
introdotto da un amico ad un circolo culturale ebraico. L'autore racconta come
si trattasse di un circolo chiuso, a cui si poteva accedere solo su
raccomandazione di qualche membro. Da un lato, ci dice l'autore, aveva
apprezzato molto il contenuto delle varie conferenze sul sionismo, fatte da
illustri professori e da inviati arrivati direttamente dalla Palestina, che gli
permettevano di riempire un grosso buco culturale. Ma nel contempo sentiva
chiaramente che gli altri membri lo guardavano dall'alto in basso con una certa
sufficienza, apparentemente dovuta alla sua ignoranza sugli argomenti trattati,
ma più probabilmente derivante da un chiaro esempio di Snobismo nei suoi
confronti. Il nostro autore non usa questa parola, ma tra le righe si legge
chiaramente che i membri di quel ristretto circolo culturale sono stati i padri
ed i nonni degli Snobili.
Le
persecuzioni razziali non colpirono troppo profondamente la comunità ebraica
romana, anche se a risentirne di più fu il "basso ceto": vivendo
ancora nella zona del ghetto, purtroppo fu meglio localizzato dai Tedeschi e
deportato in massa. Ma diversi di questi Ebrei Romani DOC sono sopravvissuti
alla bufera ed hanno messo al mondo, dopo la guerra, figli che ho potuto
conoscere personalmente.
Gli
Snobili
Potrei
definire gli Snobili come i rampolli di quell'élite culturale. Precisamente di
quelli nati nel primo decennio del dopoguerra, grossomodo tra il '45 ed il '55.
Io
sono nato alla fine del '51, proprio nel bel mezzo, quindi ne ho conosciuti
parecchi, anche se notoriamente nell'età dell'adolescenza le amicizie e le conoscenze
si formano con ragazzi più grandi o più piccoli di due anni al massimo.
Comunque, gli Snobili più "anziani" e più "piccoli" dei
miei coetanei veri e propri erano almeno fratelli o cugini dei miei coetanei, e
quindi li ho conosciuti almeno di vista o… per sentito dire.
Prima
di continuare il mio racconto sugli Snobili, ci tengo a precisare che, presi
individualmente, si tratta di bravissime persone, la maggior parte di loro
gente simpaticissima e con qualcuno siamo diventati anche ottimi amici. Quindi
prego l'eventuale Snobile lettore di non prendersela personalmente: la mia
intenzione non è quella di offenderlo/a, ma solo di descrivere gli Snobili in
generale, in quanto ritengo che essi siano un'interessante… fenomenologia
etnologico-sociale…
Il mio
primo contatto diretto con gli Snobili risale alla metà degli anni '60.
Il
luogo: il senif romano del "Bnei Akiva".
A
Roma, come in altre città dove risiedono ebrei, la Comunità ospita i principali
Movimenti Giovanili Ebraici. La loro funzione è, naturalmente, quella di
inculcare l'Ebraismo ed il Sionismo nelle giovani generazioni. Da Israele
arrivano gli "Shlichim" (gli inviati), ed i ragazzi più grandi
diventano "Madrichim", cioè istruttori, in vista di una possibile
"Alià". I più giovani sono chiamati "Chanichìm" (allievi).
I
movimenti giovanili, per i ragazzi e le ragazze dai 12 ai 18 anni (per me tra
il '64 ed il '70), avevano, però, anche un'importante funzione
"sociale".
Proprio
là, prima si formavano le grandi amicizie con altri ragazzi ebrei dello stesso
sesso, proprio là, un po' più avanti, si formavano le prime
"coppiette", che poi, col tempo, sarebbero maturate e diventate le
nuove famiglie di Ebrei Romani non assimilati.
Naturalmente
non tutto filava sempre liscio. Dopo tutto, l'adolescenza è un periodo della
vita pieno di… "problemini". Ecco l'esempio di una mia esperienza
personale in merito:
Quando
avevo circa quindici anni, arrivò a partecipare alle riunioni della mia
"kvutzà" una coetanea "nuova", una "roscetta"
carina e simpatica, ma un po' timida, ed inesperta, come me, di… "certe
cose". Tra noi due si accese subito il "clic". Durante le
riunioni ci scambiavamo frequenti occhiate molto significative di reciproco
"invito a procedere". Ma l'atmosfera del senif, e soprattutto la
costante presenza di "intrusi", non ci permetteva di raggiungere quel
minimo di intimità necessaria (alla nostra "platonica" età) per
"cominciare".
L'occasione
si presentò finalmente alcune settimane più tardi (credo che fosse all'inizio
della Primavera), quando il senif organizzò una di quelle gite domenicali in
pullman+camminata, fatte apposta per aiutare in… queste situazioni (dico per
scherzo, naturalmente) e per abituare i "chanichim" alle lunghe gite
alpine del prossimo campeggio estivo.
La
"roscetta" ed io prendemmo i debiti (candidi) accordi, come quello di
sederci in pullman l'uno accanto all'altra. Arrivata la domenica, presi il
trenino alle 6 di mattina per arrivare in tempo al pullman, di fronte
all'entrata laterale del Tempio Maggiore, che era anche l'entrata ai
sotterranei che ospitavano il senif. Arrivò anche la mia "roscetta".
L'aria era ancora pungente, mi ricordo, mentre aspettavamo lì, lo
"Shaliach", una dozzina di ragazzi tra i 14 ed i 18 anni, insieme ad
una sola ragazza. Le altre "chanichot" che si erano iscritte alla
gita, a quanto pare, avevano dato forfait all'ultimo momento. Improvvisamente
sbucò da chissà dove la madre della mia "roscetta" che, vista la
proporzione ragazzi-ragazza, decise che sua figlia non sarebbe più andata a
quella gita, e se la trascinò a casa, piagnucolante. Chissà che idee strane si
era fatta, questa madre. Forse che la sua bambina sarebbe stata stuprata a
turno da una dozzina di ragazzacci?
Chissà
se, sapendo dei progetti assai meno sconci della ragazza e di questo ragazzetto
non meno "imbranato", la mamma avrebbe cambiato idea e lasciato
partire la mia "roscetta". Ma come si faceva a spiegarle la
situazione?
La
ragazza, dopo quella gita mancata, cessò di frequentare il senif. Si vede che
la "mamma ebrea" si era veramente spaventata a morte…
Peccato.
Con le sue paure aveva abortito sull'inizio un altro amorino potenziale , uno
dei tanti, nati e cresciuti tra le mura dei movimenti giovanili ebraici…
Oltre
al "Bnei Akiva", di carattere religioso, gli altri due Movimenti
Giovanili di rilievo (forse ce n'erano anche altri, ma non ne ho mai sentito
parlare) erano l' "Hashomer Hatzair" ed il "Maccabi".
Quest'ultimo,
però, era di carattere sportivo e non "didattico". Il Maccabi-Roma
era giustamente rinomato nello Judo ed in altre arti marziali. I ragazzi che lo
frequentavano, oltre a partecipare alle Maccabiadi quadriennali in Israele,
venivano utilizzati dalla Comunità come "Gorilla". Gli sportivi,
provenienti in gran parte da quel "basso ceto" del ghetto (ma non
solo), erano ragazzoni che, all'occorrenza, sapevano anche menare le mani a
dovere.
Prima
della Guerra dei Sei Giorni, la loro funzione (ovviamente ufficiosa) era quella
di fare da guardia del corpo alle più prominenti personalità ebraiche, in caso
di minacce, specie da parte di nostalgici fascisti antisemiti. Dopo la Guerra
dei Sei giorni (anche inizio degli Anni di Piombo), si dedicarono anche alla
protezione dei luoghi di culto, durante le Feste, contro le minacce della
Sinistra Pro-Palestinese. Il loro lavoro fu anche favorito dal fatto che non
pochi di loro, come vedremo, sapevano l'Arabo niente male.
Io
ho fatto l'Alià nel '70, ma ecco una breve storia a proposito, accaduta qualche
anno dopo. Si era a Rosh Hashana del '74 (nel bel mezzo degli "Anni di
Piombo"), mentre ero in visita a Roma, stavo entrando, in mezzo alla
folla, nel Tempio Maggiore. Non avevo fatto ancora in tempo a varcare la porta
di ferro battuto del recinto esterno, quando un ragazzone, con le spalle grandi
come un armadio, mi afferrò strettamente il polso (per non lasciarmi scappare…)
e disse, con la tipica "erre moscia" dell'accento tripolino: "Un
momento, Pghego!". Mentre il "Gorilla" mi squadrava sospettoso,
senza mollare la presa, un tipo magrolino lì accanto gli disse: "Lassalo
passà, lo conosco!", poi, mentre il gorilla mollava finalmente la presa,
si rivolse a me con un forte accento giudaico-romanesco: "Aho!, varda chi
s'arivede! Mbeh? Come te vanno le cose, ggiù in Isdraele? So' ssecoli che nun
te fai vivo! Nun te ricordi de me? So'…" e fece il nome. Naturalmente me
ne ricordai: ero stato il suo "madrich" all'Hashomer Hatzair…
All'Hashomer
Hatzair, infatti ero passato alla fine del '67, dopo essere stato un membro del
Bnei Akiva per quattro anni, a partire dal '64.
I
due Movimenti Giovanili, il Bnei Akiva e L'Hashomer Hatzair si guardavano in
cagnesco da sempre. Non solo per le ovvie differenze ideologiche, ma
soprattutto perché a Roma erano frequentati da ragazzi dei due "ceti"
contrapposti: il Bnei Akiva dagli Snobili e l'Hashomer Hatzair da quelli di
"basso ceto".
C'è
da dire che la Comunità favoriva, in certo qual modo, il Bnei Akiva. Il senif
del movimento era ospitato nell'ampio "Centro Sociale", che si
trovava nei sotterranei del Tempio Maggiore, mentre il "Ken"
dell'Hashomer Hatzair era ospitato in quelli assai meno ampi e confortevoli
della Scuola Ebraica, al di là del Tevere. La distanza tra le due sedi era di
poche centinaia di metri, ma la distanza ideologica e soprattutto quella
sociale, era insormontabile, tanto è vero che durante i miei quattro anni al
Bnei Akiva, ignoravo persino che esistesse, l'Hashomer Hatzair…
L'Hashomer
Hatzair, diciamocelo francamente, era più che altro "sopportato" dai
membri influenti (ed "affluent") della comunità, che per ovvie
ragioni non potevano ostracizzare la sua "presenza", ma credo che
anche il contributo finanziario (locali a parte) fosse sproporzionato.
Ripensandoci bene, mi ricordo che, mentre le spartane attività dell'Hashomer
Hatzair erano finanziate per lo più dai suoi stessi membri, quelle più
"edonistiche" del Bnei Akiva erano probabilmente sovvenzionate in
gran parte dalla Comunità. Mi riferisco soprattutto ai campeggi estivi, sui
quali ritornerò tra poco.
Il
"terzo stato" andava principalmente al Bnei Akiva.
Le ragioni
sono molte: innanzi tutto il ceto sociale dei suoi componenti era più o meno
quello degli Snobili. I due gruppi appartenevano alla stessa media borghesia.
Ai miei tempi buona parte dei rampolli del terzo stato frequentava il Classico
in uno dei più rinomati Licei della città, soprattutto il "Virgilio",
la cui sede non era molto lontana dai centri della Comunità. Altri andavano al
"Mamiani", per tradizione di famiglia, mentre credo che nessuno
andasse al "Giulio Cesare", che era notoriamente frequentato dai
rampolli di "destra" degli ex-fascisti.
Ultima
ragione, forse la più importante, era che solo frequentando assiduamente il
Bnei Akiva tutti i sabati, si poteva accedere ai campeggi estivi organizzati a
Luglio (e volendo a quelli invernali, sotto le feste di Natale). Questi
campeggi estivi erano senza dubbio l'evento più atteso da tutti i giovani della
Comunità. Tra i sei ed i dodici anni, i bambini andavano alle colonie estive,
una in montagna (vicino al Lago di Como), una al mare (Riccione). Le famiglie
romane preferivano naturalmente quella montana. Per il mare bastava venire ad
Ostia, proprio dove abitavo io, o al massimo, a Fregene.
Tra
i 12 ed i 18 anni si andava ai campeggi.
I
campeggi estivi del Bnei Akiva erano campeggi… di lusso: niente tende, ma un
albergo di terza categoria in qualche paesino delle Prealpi Lombarde o
Tridentine, affittato per due mesi dall'Unione delle Comunità. A Luglio veniva
occupato dai giovani del Bnei Akiva, ad Agosto dai giovani più grandi della
FGEI, dove le coppiette di universitari facevano… non so quale attività…
culturale. Cosa facessero non lo so con esattezza, perché io, arrivato all'età
giusta, me ne andai a vivere in Israele.
I
campeggi non erano naturalmente riservati solo agli Ebrei Romani. Ci venivano
anche i membri delle comunità delle altre grandi città, soprattutto Milano, ma
contingenti consistenti arrivavano anche da Firenze, da Torino, da Genova e da
Livorno, con sparute presenze da Padova, Venezia, Bologna, e perfino da Napoli.
Le
attività didattiche dei campeggi erano simili a quelle dei sabati di tutto
l'anno, ma più concentrate: Ebraismo, Sionismo, Preghiere, eccetra. Poi c'erano
le famose "Gite", arrampicate di molte ore in cima a qualche
cucuzzolo dei dintorni.
Ma
naturalmente l'essenziale era la vita in comune, 24 ore su 24, per un intero
mese. Ottima occasione (e probabilmente ragione principale per i genitori, di
mandare i ragazzi) per socializzare.
Era
propri lì, ai campeggi, che si formavano le "coppiette" della
prossima generazione, quelle che avrebbero perpetuato l'Ebraismo Italiano, e lo
avrebbero salvato dalla sempre incombente assimilazione.
Naturalmente
era importante anche fare conoscenza con i ragazzi e con le ragazze delle altre
città. Allora le distanze erano infinitamente più grandi di oggi, e l'occasione
dei campeggi le accorciava e permetteva i contatti diretti. C'è da dire che i
risultati si fecero vedere. La coppietta più famosa del periodo fu quella di
mia cugina e di un bel ragazzo di Livorno: hanno "cominciato" a circa
13 anni, si sono sposati a poco più di vent'anni, hanno fatto l'Alià, messo al
mondo tre figli, ed ora si spupazzano felicemente dieci nipotini. Il vero
"Sionismo" nelle intenzioni del Poeta che ha ideato i Campeggi Estivi
del Bnei Akiva…
Comunque,
va ricordato che, sia durante i campeggi, sia soprattutto al senif di Roma, i
due gruppi, quello degli Snobili e quello del "terzo stato" erano ben
distinti.
Gli
Snobili, benché fossero in inferiorità numerica, erano una cerchia chiusa:
quella che comandava.
Per
gli Snobili, il fare parte del senif Bnei Akiva, aveva la funzione non meno
importante di formarli al loro futuro ruolo di leader della Comunità.
Lì
potevano sperimentare le loro future capacità didattiche sulle cavie del
"terzo stato". Lì potevano bistrattarle per mettere a prova le loro
capacità di leadership, come giovani ufficialetti che sarebbero diventati, a
tempo debito, i generali di un esercito ai loro ordini.
Ma,
alla resa dei conti, soprattutto lì, gli Snobili mettevano gli occhi e si
prenotavano le migliori ragazze del "terzo stato" più giovani di
loro, facendosi adorare come "idoli".
Soprattutto
lì, le viziate Snobili mettevano gli occhi sui "migliori partiti"
della loro casta, rintuzzando con autorità i tentativi delle piacenti rivali
del "terzo stato".
Al
Bnei Akiva di Roma erano solo gli Snobili a fare il bello ed il cattivo tempo.
Erano solo gli Snobili che avevano la precedenza nella scelta delle ragazze più
piacenti tra le nuove reclute del "terzo stato".
Qualche
ragazza del "terzo stato", più attraente ed intelligente delle altre,
riuscì ad accaparrarsi un ragazzo degli Snobili, ma… attenzione! Non è detto
che la… Sbnobiltà non le considerasse pur sempre come la Famiglia Reale
Britannica considerava la Principessa Diana…
Per
i ragazzi del "terzo stato", poi, non c'era nessuna speranza. Le
ragazze più decenti degli Snobili erano già "prenotate" in partenza
dagli Snobili ragazzi. Guai ad avvicinarsi ad una di quelle. Gli Snobili
serravano i ranghi e ti ostracizzavano e ridicolizzavano a tal punto che, se
non te ne andavi dal Bnei Akiva quanto prima, era peggio per te.
Ma
tutto questo rigido ordine sociale, cristallizzato da almeno un paio di
generazioni, un bel giorno crollò improvvisamente, come un castello di carte.
La
Conquista della Libia
Il
mondo non lo sa, ma la sfolgorante vittoria della Guerra dei Sei Giorni, oltre
ai risultati noti a tutti, ebbe anche risvolti
collaterali meno conosciuti.
Uno
di questi risvolti fu la reazione del popolino arabo della Libia, che iniziò a fare
dei veri e propri pogrom nei confronti della comunità ebraica residente. Il re
Idris (che verrà spodestato da Gheddafi due anni più tardi), ritenne opportuno,
per calmare le acque e smorzare la reazione del popolino nei confronti degli
"Yahùd", di permettere a chi di loro voleva, di lasciare il paese in
maniera ordinata. Molti Ebrei Tripolini (la maggioranza viveva nella capitale)
capirono l'antifona e colsero la palla al balzo.
Gli
Ebrei Tripolini erano una comunità molto affiatata. La maggior parte di loro
erano gente istruita, che spesso parlava l'Italiano in casa (come gli Ebrei
Marocchini parlano il Francese), religiosi praticanti o, comunque, profondi
conoscitori della Tradizione. Molti di loro sapevano leggere anche l'Ebraico,
non molto dissimile dall'Arabo che parlavano per strada. A differenza degli
Ebrei Italiani, si trattava spesso di famiglie molto numerose.
I
"Tripolini", per ovvie ragioni di affinità linguistica, arrivarono in
Italia. Una buona metà di loro si fermò solo il tempo necessario per
organizzarsi e poi fare l'Alià. L'altra metà trovò l'Italia troppo di suo
gusto, ed alla fine rimase. Si sparpagliarono equamente tra Milano e Roma, dove
molti di loro aprirono negozi di abbigliamento nel nuovo quartiere che, guarda
caso, faceva centro su… Viale Libia.
I
Tripolini si inserirono immediatamente nella Comunità Ebraica. In forma del
tutto naturale, i giovani entrarono in massa a far parte dell'unico movimento
religioso a disposizione: il Bnei Akiva.
Ora,
cercate di immaginarvi il nuovo scenario:
Il
Bnei Akiva fu invaso dall'oggi al domani, da un nutrito gruppo di ragazze e
ragazzi "nuovi" di tutte le età. Ragazzi e ragazze che già si
conoscevano da prima.
In
più, si trattava di ragazze e di ragazzi molto intraprendenti, volonterosi e
desiderosi di farsi apprezzare nella
nuova comunità che li ospitava.
Appena
arrivati, i più grandicelli si diedero subito da fare per diventare
"madrichim". Grazie alla preesistente tradizione di famiglia, la
maggior parte di loro poteva dare dei punti ai madrichim degli Snobili:
conoscevano la Bibbia e le altre scritture molto meglio, erano stati educati al
Sionismo molto meglio, sapevano a memoria tutte le preghiere e molti di loro
capivano anche il significato delle parole delle stesse.
Questo,
dal punto di vista della "leadership" didattica.
Per
quanto riguarda quella "sociale", le cose, per gli Snobili, andarono
ancora peggio. Fino a quel momento, come abbiamo detto, erano stati loro a fare
il bello ed il cattivo tempo, a scegliere le ragazze migliori, senza che
nessuno ci potesse mettere una parola in mezzo. Ma di punto in bianco tutte, ma
proprio tutte le ragazze più "decenti" del terzo stato, non ebbero
più occhi che per quei bei fusti, "nuovi", abbronzati,
intraprendenti, che parlavano l'Italiano con quell'accento "francese"
dalla erre moscia tanto esotica...
Per
le ragazze Snobili, le cose non andarono certo meglio: fino a quel momento non
avevano avuto rivali. Improvvisamente, non pochi "migliori partiti"
tra i ragazzi Snobili, si trovarono assaliti da un nutrito gruppo di ragazze
bellocce, curvilinee, esotiche e, soprattutto (anche quelle più giovani), molto
più… smaliziate delle viziate "reginette" Snobili.
Gli
Snobili cercarono di serrare i ranghi, ma era una battaglia persa in partenza:
puoi facilmente ostracizzare e ridicolizzare un singolo poveretto del
"terzo stato", ma non puoi fare niente contro un gruppo ben compatto,
pieno di fratelli e di cugine di tutte le età, che alla bisogna possono
aiutarsi a vicenda, comunicando tra loro in un dialetto arabo incomprensibile.
Indipendentemente
dalle "piccolezze" sociali che accadevano in seno al Bnei Akiva,
l'Italia era in fermento: dopo il Maggio Francese , si andava a grandi passi
verso l'Autunno Caldo.
L'Università
era diventata un casino. Spesso occupata, era diventata il campo di battaglia
tra i "picchiatori" di estrema destra ed estrema sinistra.
Come
si faceva a diventare Avvocati, Medici e Professori, in quelle condizioni?
… E
fu così che, un po' perché gli Snobili avevano ormai perso la prospettiva di
diventare la naturale continuazione dell'élite della comunità ebraica romana,
un po' perché l'università era diventata veramente un casino, non pochi di loro
fecero l'Alià…
Gli
Snobili, naturalmente vi diranno che io sto dicendo un sacco di boiate. Che la
loro Alià è nata da veri sentimenti di Sionismo, specie in un periodo, dopo la
Guerra dei Sei Giorni, nel quale le prospettive di una vita in Israele erano
molto più allettanti di quelle di una vita in Italia, alle soglie degli Anni di
Piombo.
Ma,
comunque, si trattò di un'Alià "di lusso": come studenti universitari (a spese dello
Stato d'Israele), in città come Gerusalemme e Haifa, tanto simili, per certi
aspetti a Roma ed a Milano.
Negli
anni a cavallo tra la Guerra dei Sei Giorni ('67) e quella del Yom Kippur ('73)
l'Alià degli Ebrei Italiani raggiunse una consistenza mai eguagliata fino ad
allora: quella di ben 50 (CINQUANTA!) Olìm all'anno.
Hashomer
Hatzair e… dintorni
A
questo punto, per amore della verità, devo dire che della conquista [del senif
Bnei Akiva romano da parte] della Libia, io sono stato spettatore solo
all'inizio. Proprio all'arrivo della prima grande ondata di Tripolini, infatti,
avevo finalmente lasciato il Bnei Akiva.
Innanzitutto,
non essendo di famiglia religiosa, mi ero proprio stufato di tutte quelle
preghiere e dissertazioni sul Maimonide e compagnia bella, e poi ero ormai
arrivato all'età in cui si preferisce passare i sabati sera alle
"feste" dei compagni liceali del quartiere. Lì c'era, tra l'altro,
ancora selvaggina, mentre al Bnei Akiva, beh... la situazione, per uno del
"terzo stato" come me, già era quella che vi ho raccontato prima.
Figuriamoci poi adesso, con tutti questi Tripolini in agguato sulle poche
ragazze disponibili…
Ostia
sarà stata per molti degli Snobili "la fine del mondo, a sinistra",
ed un posto pieno di "assimilazione", ma, Diobbono, per un ragazzo
ebreo di quindici-sedici anni come me, il mondo sentimentale e culturale mica
cominciava e finiva tutto al senif del Bnei Akiva…
E
poi, se proprio ci tenevo tanto a far conoscenza di ragazzi e ragazze ebrei
miei coetanei, beh, lì al mare, durante le vacanze, ce ne venivano ancora
parecchi. Ed io, là ad Ostia (come dire: in… Patagonia) ero uno dei pochi…
"Indigeni", uno che, alla bisogna (in caso di prospettato
"rimorchio"), conosceva tutti gli… anfratti della zona…
Fu
infatti proprio in "Madre Patria" che nell'Agosto del '67, per i
soliti intrallazzi delle preoccupate reciproche "Madri Ebree", feci
conoscenza con una ragazza di un paio d'anni più giovane. Diventammo subito
buoni amici, anche se tra noi due non nacque mai nulla di tenero, perché lei
non era il mio tipo, né io il suo, ma in compenso, tramite lei, feci la
conoscenza con una ragazza tredicenne (cristiana) che studiava con lei
all'English School, e con un ragazzo ebreo di un anno più grande di me.
Ci
rincontrammo di nuovo tutti e quattro insieme all'inizio dell'estate successiva
('68), quando il ragazzo e la mia amica si misero insieme per un po' e
l'amichetta cristiana, ormai quattordicenne, divenne la mia vera e propria
"prima ragazza".
A
beneficio dei curiosi, dirò che si trattò di amorini estivi di breve durata,
come allora accadeva a quell'età. Ma siccome le mie vicende sentimentali
proprio non sono l'argomento di questa storia… soprassediamo e passiamo oltre.
Con
il ragazzo restai in contatto anche dopo l'Estate. Era uno dei
"Bogrim" del Ken Hashomer Hatzair di Roma, e fu lui che mi fece far
conoscenza di quel Movimento Giovanile che conoscevo solo di nome, quando era
dileggiato a distanza dagli Snobili e… companatico.
…
e… Sorpresa! L'Hashomer Hatzair era tutt'altra cosa di quel poco che mi avevano
vagamente raccontato (parlandone principalmente male) al Bnei Akiva.
Si
trattava di un vero Movimento Giovanile Ebraico Sionista, con ideologia
naturalmente Socio-comunista, molto più vicina alle mie idee politiche. I
ragazzi del Ken erano molto affiatati, ma mi accolsero senza sospetto e senza
snobismo. A dire il vero erano proprio tutto l'opposto degli Snobili. Credo che
mi tenessero addirittura in una certa considerazione fin dall'inizio, sia
perché a sedici anni ero già un "Bogher", sia, forse, perché studiavo
al Classico.
La
maggior parte dei haverim proveniva dalla gente di ghetto, poco istruita, ma
gran lavoratrice. Gente che non elucubrava sul Maimonide, che parlava con il
pesante accento dell'ormai languente dialetto Giudaico-romanesco, ma che si
preparava con coscienza alla vita del kibbutz.
Frequentai
il Ken per quasi due anni, imparando un sacco di cose concrete su Israele, e
fungendo addirittura da Madrich dei più piccoli al campeggio estivo del '69.
E
che differenza con quello del Bnei Akiva! Il campeggio si faceva sotto le
tende, come di addice ad un vero Movimento Scoutistico. Si lavorava sodo, e
verso la fine dello stesso, si fece il Passa-bandiera: Tutti i Bogrim ce ne
andammo in gita (finalmente soli!), mentre i ragazzi di uno-due anni più
giovani di noi pendevano in mano le redini del campeggio, in vista di diventare
Bogrim e Madrichim l'anno venturo. Niente caste. Un cambio della guardia
democratico ed importantissimo per il futuro del Movimento.
La
gita "finale" dei bogrim quell'anno ebbe anche la funzione di
consentire alle coppie dei Bogrim di trovare un po' di intimità, persa in quel
mese per la perenne presenza dei "piccoli".
Il
gruppo dei "bogrìm" del Ken di Roma, infatti, era composto da una
dozzina di ragazzi, cinque o sei coppie fisse da anni, che poi si sono sposate.
Come
gli Snobili, anche loro hanno fatto l'Alià più o meno nello stesso periodo,
come "Garìn" in un kibbutz, naturalmente.
Ma,
a quanto pare, per loro il cambiamento di stile di vita è stato troppo grande:
nonostante la forte ideologia, Il kibbutz non era il ghetto, ed in capo a
pochissimi anni quasi tutti gli ex Haverim, sono ritornati sui loro passi, di
nuovo a Roma, e da allora, naturalmente, ne ho perse le tracce.
La
mia breve partecipazione alle attività dell'Hashomer Hatzair fu dunque una
partecipazione ideologico-sociale, del tutto estranea alle questioni
"sentimentali".
A
quel tempo, i miei interessi in fatto di ragazze si alternavano tra il fare la
corte ad una ragazza che avevo conosciuto anni prima, proprio al Bnei Akiva, ed
il rintuzzare elegantemente la corte che mi faceva un'altra ragazza (cristiana)
del mio Liceo di periferia.
Ma
lasciamo da parte le mie avventure sentimentali personali, che non sono
l'argomento di questa storia.
All'Hashomer
Hatzair mi trovai assai bene in fatto di amicizie, ma era chiaro a tutti che,
anche se "Boghèr", ero un "outsider". Non ci ero cresciuto,
nell'Hashomer Hatzair, non avevo mai fatto parte del "ceto sociale"
di "quelli di Piazza". Anche se non ero affatto prevenuto nei loro
confronti, come gli Snobili, era chiaro che la mia sorte sarebbe stata quella
di andare all'Università. Anche se l'Università era proprio allora al massimo
del Casino: si era infatti in pieno "Autunno Caldo".
Gli
Snobili d'Israele
E
fu così che verso la fine del '69 presi la fatidica decisione di fare l'Alià.
Non certo per sionismo sfegatato: ormai in Terzo Liceo, con la maturità alle
porte, avevo smesso di frequentare anche i Haverim dell'Hashomer Hatzair.
Pensavo vagamente che l'anno dopo sarei andato a studiare Biologia
all'incasinata "Sapienza", ma per il momento avevo ben altro a cui
pensare.
Chi
mi mise improvvisamente la pulce nell'orecchio di andare a studiare in Israele,
fu proprio il marito di mia cugina, che, trasferitosi a Roma da Livorno dopo il
matrimonio, aveva già una bambina da spupazzare. Per sbarcare il lunario,
mentre era impegnato a studiare Ingegneria all'università, si trovò un impiego
all'Agenzia Ebraica, in vista della loro Alià (per forte ideologia sionista),
in programma per l'estate dell'anno successivo.
Fu
lui che mi fece la proposta di chiedere la borsa di studio per studiare
all'Università Ebraica di Gerusalemme. L'idea mi piacque. In fondo, con la
situazione alla "Sapienza", la prospettiva di studiare all'estero era
molto allettante. E poi, chi ce li aveva i soldi (e chi sapeva l'Inglese?), per
andare a studiare… in America?
Mi
preparai il minimo necessario, e superai gli Esami di Maturità con appena la
sufficienza: tanto io che i membri della commissione sapevamo benissimo dei
miei progetti, e che mi serviva solo il "pezzo di carta". Una volta
arrivato in Israele, tanto, dovevo ricominciare tutto da zero, a partire
dall'imparare l'Ebraico come in Prima Elementare.
E
fu così che, quasi per caso, mi ritrovai negli stessi panni di molti Snobili:
uno dei tanti diciottenni italiani arrivati a studiare nelle università
israeliane negli anni a cavallo tra la Guerra dei Sei Giorni e quella del Yom
Kippur. La motivazione era forse diversa, ma ci trovavamo di nuovo nella stessa
barca…
… o
meglio, ci trovavamo in due imbarcazioni diverse, perché mentre io imparavo
velocemente l'Ebraico e l'Inglese, facevo amicizie tra gli altri studenti Olìm
provenienti da tutte le parti del mondo, e poi tra gli Israeliani della
facoltà, sul mio bastimento, gli Snobili non c'erano.
Forse
perché erano andati a studiare in altre facoltà, forse perché l'età non era
quella, magari perché qualcuno era arrivato prima e qualcun altro dopo, per
aver prima preferito tentare di studiare alla "Sapienza", solo
qualche anno più tardi venni a sapere che erano arrivati anche loro, e che la
maggior parte di loro avevano fatto lo stesso percorso.
Qua
e là, è vero, avevo incontrato all'università qualche mio coetaneo, per lo più
di altre città italiane, ma la realtà è che io trovai moglie tra le ragazze Israeliane
della mia Facoltà e, dopo gli studi, feci un servizio militare piuttosto lungo,
rimanendo quasi completamente tagliato
fuori dal gruppo dei miei ex connazionali, con i quali, comunque, non ero stato
in contatto sin dall'inizio, dopo la mia venuta in Israele.
In
Israele, in quel periodo arrivarono alcune decine di Italiani. Come abbiamo
visto, quelli di ghetto (Hashomer Hatzair) ritornarono presto sui loro passi.
Gli altri, quelli del "terzo stato", come me, e gli Snobili,
rimasero.
Purtroppo,
come me, parecchia gente del terzo stato si "assimilò" presto,
facendo "matrimoni misti",
perdendo così la sua "Italianità". Non pochi, come me, osarono
addirittura prendere la Cittadinanza Israeliana (allora l'Italia non
riconosceva quella doppia).
Ma,
per fortuna, a conservare l'Italianità ci pensarono gli Snobili. Buona parte di
loro, fedeli al detto "Donne e buoi…" si sposarono tra loro, formando
famiglie italiane DOC.
Ma
chi sono, poi, gli Italiani DOC?
Quelli
che parlano Italiano? Quelli che… pensano Italiano? Quelli i cui antenati vivevano in Italia da molte generazioni?
Quelli che, quando fai loro una domanda alla quale non sanno rispondere,
dicono… "Boh? "…
…
"Boh?!? "…
Si
dice che in Israele di Italiani ce ne siano circa diecimila, ma che quelli DOC
siano duemila al massimo. Gli altri sono…Tripolini. Ma per smascherare quelli
facilmente, basta far dire loro uno scioglilingua: se ti rispondono
"Tghentatghè Tghentini... " sono… Tghipolini.
Eppoi,
c'è chi dice che l'Italiano DOC non esiste. Nemmeno tra i Cristiani. È vero che
"l'Italian lo puoi trovare dalle Alpi fino al mare", ma è altrettanto
vero che la bella lingua dove il sì suona, suona in venti modi diversi, secondo
le regioni.
In
Israele è lo stesso: L'Ebraico suona diversamente, secondo la provenienza del
nuovo immigrato.
Forse
abbiamo risolto il busillis: accettate alcune piccole differenze basilari, in
fondo gli Italiani e gli Israeliani sono molto simili tra di loro, anche a
livello… regionale. Chi ne conosce le caratteristiche noterà un'incredibile
somiglianza tra gli stereotipi degli Israeliani delle varie "Edòt"
(provenienze) e gli stereotipi degli Italiani originari delle varie regioni:
Russi, Tedeschi e Polacchi ricordano molto da vicino Piemontesi, Milanesi e
Triveneti; I Marocchini (con il loro caratterino) ricordano i Siciliani; Gli
Ebrei Irakeni hanno qualcosa a che fare con i Pugliesi, mentre gli Yemeniti
ricordano da vicino i Sardi o, se ci limitiamo alle loro note qualità canore, ai
Napoletani. Tutto il Mondo è Paese… (ed il Mediterraneo, ancora di più): Una
faccia, una razza.
E
allora, perché cercare poi tanto di distinguersi, di tenerci così tanto a
rimanere Italiani. L'Italianità mica ce la leva nessuno. Mica bisogna
proteggerla… dall'assimilazione…
Buona
parte del terzo stato, una volta arrivato in Israele, si assimilò presto: io
misi su famiglia con una Croata, un mio amico con una Polacca (più avanti
cambiò idea, ma questi sono fatti suoi), un'altra preferì un Argentino, anche se
in questo caso è come se avesse scelto… i buoi del Bel Paese… (lo sanno tutti
che gli Argentini sono Italiani che parlano Spagnolo ed odiano gli Inglesi)…
Gli
Italiani in Israele sono pochini. Quando aprono la bocca li prendono per
Sudamericani o al massimo per… Rumeni. Romani, Rumeni… via là, che tanto…siamo
più o meno là…
Ma
non gli Snobili. Qualcuno di loro avrà pure trovato il coniuge tra le altre
Edòt, ma la maggior parte si sono accasati tra di loro, per affinità culturale,
per precedente conoscenza, e magari anche per parlare in casa la lingua del Bel
Paese.
Gli
Snobili sono quelli che hanno mantenuto acceso il Fuoco Sacro dell'Ebreo
Italiano in Israele. Quelli che hanno deciso, di loro iniziativa, di essere i
veri rappresentanti di tutti gli Ebrei Italiani in Israele, anche
se non glielo ha mai chiesto nessuno.
Gli
Snobili sono quelli che hanno deciso di continuare ad avere quella funzione di
Leadreship che avevano perso in Italia.
Una
volta presa una decisione così fatidica ed importante, si sono dedicati a
portare in Israele la Cultura Italiana, da loro imparata al Classico. E,
siccome la Noblesse Oblige, si sono prodigati anche a fungere da
Ambasciatori degli Ebrei Italiani in Israele, di fronte alle Autorità Italiane.
Queste
ultime, naturalmente, hanno sempre piacere a mantenere i contatti con gli
Italiani all'estero. Dopo tutto questa è la ragione per cui gli impiegati dei
consolati ricevono lo stipendio.
Le
relazioni tra l'Italia e lo Stato di Israele sono buonissime. Sono state sempre
tali, già a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E vanno
continuamente migliorando. Le ragioni sono tante, ma io credo che quelle
principali siano la presenza dei Luoghi Santi e, non meno, quell'affinità
mediterranea naturale… una faccia, una razza…
Comunque,
anche i buoni rapporti vanno coltivati. A curarli ci hanno pensato, appunto gli
Snobili.
A
loro si deve certamente il grande merito di aver fatto presente alle Autorità
Italiane dell'esistenza di alcuni "problemini" irrisolti, in seno alla
Comunità Ebraica Italiana d'Israele.
È
indubbio merito degli Snobili se a metà degli anni '90, la Repubblica Italiana
ha permesso a gli ex Italiani che avevano preso la Cittadinanza Israeliana (che
ingrati!) di poter acquisire quella doppia.
È
indubbio merito degli Snobili, se alla fine degli anni '90, è stato permesso
agli Italiani residenti in Israele di votare al Parlamento Italiano. Non ci
dimentichiamo che gli aventi diritto al voto in questione (qualche centinaio)
rappresentano la maggior concentrazione di Cittadini Italiani di un paese
asiatico (sissignori! Ci sono più cittadini italiani residenti in Israele che
in Cina o in India!|).
La
prima volta che gli Italiani residenti in Israele sono andati a votare, hanno
perfino fatto da ago della bilancia. Al Senato c'era il pareggio. Gli Italiani
in Israele hanno votato quasi tutti per Berlusconi, che, grazie a loro avrebbe
formato il Governo, se la circoscrizione del Contingente Israeliano non avesse
compreso, oltre all'Asia, anche l'Africa e l'Oceania: i cittadini italiani
residenti in Australia, però, sono di sinistra e sono diverse migliaia. Il
senatore della circoscrizione Asia-Africa-Oceania-Antartide fu quello che diede
la maggioranza a Prodi… gli Snobili ci avevano provato. Purtroppo sono stati i…
Canguri a rompergli le uova nel paniere…
Comunque
alle ultime elezioni (2008). Berlusconi ha avuto in Israele la maggioranza più
assoluta di tutte le altre circoscrizioni (Milano compresa!). Il voto
"israeliano" è strettamente collegato con il fatto che il Presidente
è notoriamente Filo-israeliano. Comunque il Cavaliere ha saputo dimostrare la
sua riconoscenza (almeno per la buona volontà) anche in passato. Non a caso ha
mandato il suo Ministro degli Esteri Fini a Yad Vashem a fare Mea Culpa
a nome di tutti i Fascisti…
… o
che gli Ebrei Romani si siano dimenticati di quello che successe ai loro padri,
e siano diventati improvvisamente fascisti anche loro?
Ma
no, non ci credo!
Vedrai
che il loro voto compatto per Alemanno (che poi significa Tedesco!) sarà stato
per ragioni di gestione locale della Nettezza Urbana (traduzione: L'immondizia
di Roma)…
Le
relazioni della Repubblica Italiana con lo Stato d'Israele sono ottime.
Lo
dobbiamo tutti ai continui sisifici sforzi degli Snobili.
Grazie
di cuore.
I Titoli
Snobiliari
Si
racconta che Giulio Cesare fosse basso e precocemente pelato. Le malelingue
dell'epoca (o, se preferite, i Pasquini dell'epoca) raccontavano che preferiva
andare a cavallo, invece che a piedi e che, quando veniva a Roma per fare al
Senato la solita relazione sulla sua ultima campagna militare, essendo
costretto ad andare in giro a piedi ed "in borghese", calzava, al
posto degli scarponcini militari (le caligae), degli zoccoli con la
suola molto spessa, per aumentare di qualche centimetro la sua statura. In
quelle occasioni, gli veniva anche conferita la "medaglia dell'ultima
campagna", consistente nella solita corona d'alloro. La legge diceva che
un generale vittorioso aveva il diritto di portare la corona solo per un anno,
ma tutti i generali in genere se la toglievano subito dopo la cerimonia. Un po'
come in Israele oggi, dove i militari in divisa si mettono le mostrine delle
guerre alle quali hanno partecipato, ma si guardano bene dall'andare in giro
con le medaglie sul petto. Giulio Cesare, dicevano le malelingue, aveva invece
l'abitudine di tenersi in testa l'ultima corona d'alloro ricevuta, anche quando
girava in borghese, ma che lo faceva non tanto per vanità, quanto per coprire
la "pelata". Poi, dovendo provvedere alla "parrucca" dell'anno
successivo, ripartiva a conquistare un altro pezzo di Francia.
Quest'uso
di onorare un generale vittorioso con la corona d'alloro aveva anche un'altra
funzione: quella di onorare tutti i soldati (che poi erano i normali cittadini)
reduci dalla guerra.
Invece
di dare la medaglia a tutti, la davano al generale, soprattutto per gli indubbi
meriti personali, ma anche in qualità di rappresentante di tutti i suoi
soldati. Era un modo, insomma, per fare
sì che un cittadino, vedendo il "suo" generale pieno di medaglie,
potesse dire fieramente "C'ero anch'io!" agli amici. Un sistema, tra
l'altro, utilissimo ai politici: gonfiando un po' l'Ego dell'elettore, i
politici se ne assicuravano il voto alle elezioni successive.
Oggi,
in tempo di pace, al posto delle medaglie al valor militare, il sistema è
quello di concedere dei titoli nobiliari "fittizi". In passato questi
titoli, non erano affatto fittizi: avevano anche un discreto valore economico.
Il Conte aveva la… Contea, con tutti gli
annessi e connessi.
Ma
i titoli nobiliari sono di quantità limitata, e poi, in tempo di Repubblica,
hanno perso il loro significato di una volta, così che oggi si fa uso dei
Titoli Snobiliari: Grande Ufficiale, Commendatore, Cavaliere. Il principio è
sempre lo stesso: quello di dare la "patacca" ad un rappresentante di
qualche settore, sia per indubbi meriti personali, sia per dare un
riconoscimento al settore che rappresenta. Ci sono molti "Cavalieri",
e tutti i cittadini ne conoscono personalmente diversi. Tutti i cittadini,
cioè, sono amici personali di qualche cavaliere che rappresenta il loro
settore, e quindi tutti sono… un po' "cavaliere" anche loro.
Se
Giulio Cesare avesse usato, come oggi, i biglietti da visita, ci avrebbe fatto
stampare sicuramente sopra: "Comm.
Gen. Caio Giulio Cesare".
Per
ragioni che esulano dal mio comprendonio, pare che questi Titoli Snobiliari,
peraltro equamente distribuiti dal Presidente della Repubblica, siano
apprezzati soprattutto dalla gente di "Destra". La cosa vale anche
per gli altri titoli, derivanti dalla funzione ufficiale. Basta pensare a
Berlusconi. In passato in Italia non ci si rivolgeva al Capo del Governo con
l'appellativo "Presidente", che in Italia era riservato al solo Capo
dello Stato. È vero che Berlusconi è ufficialmente il Presidente del Consiglio
dei Ministri, ma io personalmente trovo di pessimo gusto quell'appellativo
"Presidente e… basta", che suona, agli orecchi di questo Pasquino,
come un tentativo un po' ridicolo di Berlusconi di mettere in testa alla gente
che il Primo Cittadino è proprio lui.
D'altronde
lo stesso Berlusconi, quando non funge da Capo del Governo, ci tiene molto a
farsi chiamare "Cavaliere". Un po' come Giulio Cesare, anche lui con gli
stessi complessi. Non so se usi le suole rialzate, ma in mancanza di… corona
d'alloro, mi pare che si tinga i capelli e che questi siano… aumentati di
numero col tempo.
Comunque
è certo che tutti questi titoli e… ritocchi, non derivano da un complesso d'inferiorità
e dalla volontà di gonfiarsi l'Ego, ma solo da meriti personali ed in
rappresentanza del suo settore d'origine…
I
Titoli Snobiliari vengo dati, naturalmente, per indubbi meriti personali.
Quando l'Italia, nella persona del Presidente della Repubblica, vuole onorare
veramente qualche persona con grandi meriti per la Nazione, le conferisce un
Titolo Snobiliare alto, quello di Grande Ufficiale. Ai capi riconosciuti di
qualche importante settore viene spesso conferito il titolo di Commendatore, mentre
al resto degli "onorati" si concede il più generico titolo di
Cavaliere. I titoli Snobiliari vengono concessi spesso in occasioni
particolari. Per esempio nel 1987 alcuni tra più grandi attori italiani
dell'epoca, tra cui Alberto Sordi, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman,
ricevettero insieme l'onorificenza di "Grande Ufficiale al Merito della
Repubblica", che poi è stata "aumentata" nel '94 a quella
massima di "Cavaliere di gran Croce", onorificenza che viene concessa
molto raramente, solo a chi… se la merita veramente.
Non
a caso il massimo esponente morale della Comunità Ebraica Romana, l'Emerito
Rabbino Elio Toaff, è stato insignito proprio dell'onorificenza di
"Cavaliere di Gran Croce". Senza dubbio per indiscutibili meriti
personali, ma anche in qualità di massimo rappresentante della Comunità.
Insomma, anche perché l'Italia Ufficiale potesse dire ai "suoi"
Ebrei: "Grazie di tutto, siamo buoni amici da sempre, e continueremo ad
esserlo in futuro. Vi onoriamo e vi Rispettiamo, e ci teniamo che lo vengano a
sapere anche tutti i Cittadini Italiani".
Anche
le relazioni della Repubblica Italiana con lo Stato d'Israele e con i suoi
residenti italiani e non, sono in
continuo miglioramento.
Per
questo, quando lo Stato d'Israele compie gli anni tondi, l'Italia si cura di
mandare gli auguri, personalmente da parte del Presidente della Repubblica,
sotto forma di Titoli Snobiliari…
Veramente
carino da parte sua…