IL CIPPO DEI
TRE POGGIOLI
(un monumento
che non c'è più ci ricorda un pezzo di Storia dimenticata)
Il numero unico "Monte
Cassino" fu voluto dal Capitano Corrado Galli, comandante del 5° Gruppo
Salmerie Someggiate, alla fine della guerra, per farlo distribuire ai suoi 250
artiglieri, come ricordo tangibile dei gloriosi giorni passati insieme a
liberare l'Italia dai Crucchi.
Il numero unico fu redatto nel
luglio del '45, a guerra finita, nella pace bucolica di S. Martino Spino, dove
c'era il Centro Addestramento Quadrupedi. Lì i salmeristi avevano appena
"versato" muli e basti (in gergo militare: avevano restituito al
governo i nobili animali e le altre suppellettili militari). Ovviamente per il
congedo c'era da aspettare ancora un po', cominciando dalle classi più anziane.
Il Capitano Galli, con la sua
ormai leggendaria capacità organizzativa, aveva dato ordine alle "teste
d'uovo" del reparto di mettersi al lavoro. Dati i tempi limitati, di
lavoro da fare ce n'era tanto, ma il capitano si fidava dei suoi
"bambini". Come loro non lo avevano mai deluso sui calanchi
dell'Appennino, così non lo avrebbero deluso in quell'ultima, importantissima
missione. E così fu. Alla fine di agosto il numero unico "Monte Cassino"
era pronto, e fu distribuito ai 250 salmeristi del 5°, ricordo tangibile per i
militi e testimonianza storica per le generazioni future.
Il numero unico "Monte
Cassino" non contiene solo il racconto delle gesta del Gruppo, ma è anche
arricchito da molte illustrazioni. Il capitano chiese in prestito da un altro
reparto un certo Badellino, un abilissimo caricaturista, che si sbizzarrì a
fissare sulla carta le facce degli ufficiali e dei soldati, mentre il sergente
maggiore Fortuzzi, romano, astemio, donnaiolo, poeta e insegnante di disegno,
si era occupato delle altre vignette e di scrivere alcuni sonetti in dialetto
romanesco.
Un altro romano, il soldato
semplice Mario Pace, che fino ad allora aveva redatto, praticamente da solo, 37
numeri del giornaletto del reparto, si occupò di scrivere parecchi articoli del
numero unico.
I due, come succede in questi
casi, rimasero amici anche dopo la guerra.
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Il sergente
maggiore Aldo Fortuzzi |
Il Capitano
Corrado Galli e i suoi "Bambini" |
Il soldato
semplice Mario Pace |
Che la pacifica occupazione
"giornalistica" non tragga in inganno. Le teste d'uovo avevano da
poco riesumato le loro capacità intellettuali "borghesi", ma fino a poco
prima erano stati soldati in guerra, come tutti gli altri compagni.
In guerra, per chi non lo
sapesse, le capacità intellettuali "borghesi" non hanno nessuna
importanza. La stima dei compagni deriva da tutt'altre qualità: quelle che si
rivelano utili agli altri nella contingenza.
Così, il sergente maggiore
Fortuzzi era stato un valoroso comandante di squadra ed era famoso nel reparto
per il suo sesto senso nell'individuare le mine. Aveva salvato diverse volte
dei compagni finiti sui campi minati.
Il soldato semplice Mario Pace,
invece, nato nel '23, era uno dei più giovani, forse il più giovane del Gruppo,
a parte qualche recluta arrivata all'ultimo momento. Nato e cresciuto per
vent'anni all'interno della cerchia delle Mura Aureliane, non aveva la minima
dimestichezza con i muli.
Pare che fosse il campione
indiscusso del Gruppo in fatto di perdita di muli. Non appena gliene veniva
assegnato uno nuovo di zecca, la valorosa bestia lo guardava in faccia,
storceva il muso e scappava via.
Questa reciproca antipatia tra il
soldato e la bestia rappresentava un grosso difetto (trattandosi di un gruppo
di salmerie) bilanciato però da altre qualità, non meno utili agli uomini del
Gruppo. Per esempio, pare che anche lui avesse un sesto senso, quello di
trovare un posto all'asciutto per il bivacco, qualità tutt'altro che
trascurabile durante la permanenza autunnale sulla Linea Gotica, dove regnavano
sovrani la pioggia e il fango. I compagni si fidavano ciecamente di lui, e lui
non li aveva mai delusi. Inoltre, era sempre stato pronto a dare una mano ai
non pochi montanari analfabeti del Gruppo, per scrivere le lettere a casa. I
compagni lo avevano ricambiato, dandogli una mano con quei testardi animali.
Alla fine, le cose si sistemarono, quando il soldato semplice Mario Pace fu
"adottato" da un mulo trovato in linea. Mario chiamò il mulo, per
assonanza, "Adeodato". I due se la fecero insieme fino alla fine
della guerra. Adeodato e il soldato da lui adottato, a quanto pare, erano tutti
e due filosofi, ognuno nella sua stalla. Adeodato aveva anche un'altra buona
ragione per non fare le bizze: negli ultimi mesi di guerra la sua grande soma
consisteva in un… materasso di piume trovato in una cascina, e fungente da
letto per il soldato semplice Mario Pace.
Nella foto seguente si vedono i
due in un filmato scattato il 19 aprile del '45, quando il 5° salmerie stava
facendo finalmente la sua ultima placida discesa verso la Pianura Padana.
Il soldato semplice Mario Pace è
il secondo della fila, quello di cui si vede solo la testa. Adeodato è il mulo
dal pelo chiaro.
Tra le varie vignette del numero
unico, disegnate da Fortuzzi, ce n'è una parecchio curiosa.
La vignetta appare alle date 5-10
ottobre 1944, dopo il seguente testo: "Passammo il confine tosco-emiliano
e sostammo per qualche tempo all'ombra di grossi cippi commemoranti importanti
date naturalmente storiche…"
Apparentemente la vignetta
sembrerebbe ritrarre un enorme fascio littorio e un carro armato (senza cannone
?!?) tra due cartelli con su scritti i nomi delle regioni, ma in seconda
ipotesi si penserebbe a una vignetta frutto dell'immaginazione di Fortuzzi, di
tipo quasi surrealista, perché nei pressi della vignetta le righe del numero
unico parlano soprattutto della continua crescita in altezza del fango. I
salmeristi del 5° e i loro nobili animali transitarono sulle mulattiere, sui
crinali e sulle cime delle montagne. I carri armati di lì non ci passavano. E
poi, uno senza cannone? E poi, cosa ci stava a fare un non meglio identificato
"cippo" (pietra miliare) apparentemente a forma di enorme fascio
littorio, sul cucuzzolo delle montagne dell'Appennino tosco-emiliano? La parola
"cippi", poi, nel testo è al plurale, ma la vignetta ne riproduce
solo uno. Ce n'erano altri?
E, infine: di quali importanti
date "naturalmente" storiche si sta parlando nel testo?
Forse l'articolista scrisse, e
Fortuzzi disegnò, qualcosa di ben conosciuto ai soldati, ma del quale noi
poveri posteri abbiamo perso la memoria? Forse l'articolo e il disegno si
riferiscono a qualche "barzelletta interna", di qualche fatto
avvenuto allora, ben noto agli uomini del 5° salmerie, ma incomprensibile a noi
profani?
Eravamo ormai convinti
dell'ipotesi del disegno di fantasia, quando scoprimmo su un sito internet un
paio di vecchie cartoline in bianco e nero, e il racconto che spiegava tutto.
Niente immaginazione. Tutto vero,
sia testo che disegno.
La prima cartolina mostra il
"cippo". L'angolatura è diversa, ma non ci si può sbagliare: è
proprio quello della vignetta.
In calce alla cartolina la
didascalia: "La stele dei Tre Poggioli"-
Tre Poggioli è un crinale di
confine tra i comuni di Firenzuola (Toscana) e Monghidoro (Emilia). Il nome
probabilmente deriva dal suo profilo che, visto a distanza, ricorda tre balconi
(poggioli nei dialetti dell'Italia centro-settentrionale). Tre Poggioli
raggiunge in altezza quasi mille metri sul livello del mare. Il crinale
continua poi a segnare il confine regionale in direzione nord-est, segnato
anche da un sentiero che oggi rappresenta il bordo meridionale del fitto bosco
del parco regionale di La Martina.
Il "cippo", dunque,
esisteva. Il luogo non è immaginario. Ma il carro armato sì. È di fattura
troppo moderna per riprodurre un reale veicolo risalente a prima del 1944.
Considerando la vicinanza di
Maranello, non saremmo sorpresi di scoprire che il "design futurista"
del carro armato fu un "promo" ante litteram delle
future Ferrari di Pininfarina!
Questa è l'interessante storia
del "cippo" dei Tre Poggioli:
Il monumento venne inaugurato il
27 agosto 1939, quattro giorni prima dello scoppio della seconda guerra
mondiale.
Chi decise di erigerlo furono gli
uomini della "Decima Legio", i Fedelissimi de Duce, i Fascisti
emiliani che lo avevano accompagnato nella Marcia su Roma.
L'alta stele a forma di Fascio
Littorio rappresenta Mussolini in persona, mentre apostrofa, in piedi, sulla
torretta di un carro armato, le più alte gerarchie militari e tremila
ufficiali, alla fine delle Grandi Manovre, fatte in quella zona cinque anni prima,
nell'agosto del 1934.
La seconda cartolina mostra
appunto il Duce mentre fa il famoso discorso, ritto in piedi su un modesto
cingolato sulla cui torretta appare la scritta "Chiesa" (dal nome
dell'irredentista Damiano Chiesa).
Oggi la foto ci fa un po'
sorridere ma, almeno allora, il discorso venne considerato una cosa seria, e
così la sua "promozione".
A giudicare dalla faccia di
Mussolini, ci chiediamo se nel discorso il Duce se la stesse prendendo con
qualcuno. La risposta è positiva e, come vedremo tra poco, parecchio
sorprendente.
Il discorso del Duce ai Tre
Poggioli fu chiamato, a suo tempo, "Preludio della Nazione Armata".
Nel discorso Mussolini espresse
il concetto che "La Nazione deve essere pronta alla guerra non domani, ma
oggi" e che le Forze Armate rappresentano l'élite della Nazione.
Considerando la Storia italiana
dei cinque anni che passano tra discorso del 1934 e l'inaugurazione del
monumento commemorativo dello stesso, nel 1939, il "Preludio della Nazione
Armata" dovette essere stato sentito dai "Fedelissimi" come un
discorso profetico: il Duce, ai Tre Poggioli, aveva dato alle Forze Armate
l'ordine di essere pronte, perché la Guerra fino alla Vittoria sarebbe iniziata
di lì a pochissimo.
E così fu: un anno dopo, nel
1935, l'Italia, approfittando del classico casus belli, iniziò la
Guerra d'Etiopia, portata vittoriosamente a termine un anno dopo.
La Francia, che fino a quel
momento era stata in ottimi rapporti con l'Italia, fece marcia indietro e
l'Italia si beccò le Sanzioni della Società delle Nazioni, restando isolata ed…
Autarchica. Due anni dopo Hitler invitò Mussolini in Germania e gli fece la
scena dell'esercito invincibile. Mussolini fece il giro di boa e si alleò con i
Nazisti, convinto che la Vittoria stava là.
Il resto della Storia è purtroppo
ben noto.
Ma il punto è che le cose stavano
ben diversamente nell'estate del 1934
Le Grandi manovre del 1934,
scopriamo, non furono fatte a caso sui calanchi dell'Appennino Tosco-Emiliano,
né furono fatte tanto per farle: il Duce voleva mandare un chiaro messaggio a
qualcuno.
Non a caso furono invitati alle
Grandi Manovre diversi osservatori stranieri, tra cui di sicuro i Francesi, ma presumibilmente
anche gli Inglesi e i Tedeschi.
L'Italia e la Francia, c'è da
dirlo, a quell'epoca erano tutte pappa e ciccia. La Francia era molto
preoccupata delle mire tedesche sull'Alsazia e sulla Lorena, e desiderava
fortemente avere Mussolini dalla sua. L'Inghilterra aveva il suo impero e non
temeva nessuno. E in Germania era appena salito al potere quel nuovo dittatore
che aveva subito cominciato a fare la voce grossa.
Mussolini, invece, era già al
potere da dodici anni, si sentiva forte e sicuro di sé. E volle farlo vedere
agli altri. In particolare a qualcuno di preciso.
Il Duce e l'Esercito Italiano presero
molto sul serio le Grandi Manovre del 1934.
Senza scendere troppo in
particolari di ordine militare, possiamo dire che l'Esercito volle sperimentare
le reali difficoltà di una guerra di movimento su un terreno montano,
riproducente il più possibile una situazione reale: la difesa e l'attacco sul
confine delle Alpi. La scelta dell'Appennino Tosco-Emiliano non fu dunque una
scelta presa a caso.
Le forze contrapposte erano gli
"Azzurri", che attaccavano da sud, con forze più consistenti, e i
"Rossi" a nord, che difendevano le posizioni.
Le Grandi Manovre dimostrarono le
enormi difficoltà della guerra di movimento in una zona impervia e montana,
dove le strade che andavano da nord a sud erano ben poche, e quelle che
andavano da est a ovest praticamente inesistenti. Chi doveva analizzare i
risultati delle manovre, arrivò ben presto alla conclusione che la guerra di
movimento nelle zone montane sarebbe stata praticamente impossibile e molto
costosa in mezzi e in vite umane. Di più, le manovre dimostrarono l'estrema
difficoltà della logistica: al massimo si poteva contare su qualche mulattiera.
Fu sperimentata anche l'efficacia
del sostegno tattico dell'Aeronautica, e si giunse alla conclusione che anche
quello sarebbe stato completamente inefficiente, nonostante che gli Italiani
avessero a disposizione degli ottimi piloti.
Le Grandi Manovre finirono
"in pareggio", senza vincitori né vinti. Un generale ebbe a dire che
simulare una grande battaglia campale fino in fondo, in luoghi che non ne
avevano mai vista una, sarebbe stato un po' come profanare il territorio della
Patria. Il generale in questione non aveva studiato la Storia e non poteva
prevedere il futuro.
La macabra ironia della sorte
volle che, solo dieci anni più tardi, proprio negli stessi luoghi delle Grandi
Manovre, si combattessero le sanguinose battaglie della Linea Gotica, con un
dispiego di forze molto maggiore. Anche gli eserciti contrapposti avevano gli
stessi colori sulle mappe militari (gli Alleati "azzurri" con forze
maggiori, che attaccavano da sud e, di fronte a loro, i Nemici
"rossi" che difendevano le postazioni).
Le conclusioni tattiche delle
Grandi Manovre si rivelarono esatte. Fin troppo.
E questo ci dimostra che, almeno
in quell'occasione, i generali italiani avevano saputo trarre le giuste
conclusioni. In una parola: che gli Italiani, in fatto di guerra, ne capivano
abbastanza, a differenza di quello che pensano certi stranieri, che credono di
saper fare la guerra molto meglio di noi.
È cosa risaputa che gli altri
popoli europei hanno sempre avuto una scarsa opinione delle capacità belliche
degli Italiani. Lo stereotipo del "cattivo soldato" (e non bisogna
spiegarlo certo agli Italiani) deriva dal fatto che, nel corso della storia del
Bel Paese, quasi tutte le guerre combattute sul territorio dello Stivale sono
state guerre tra stranieri interessati ad affondare le loro grinfie
sull'Italia. Ben poche sono state le guerre veramente "sentite" dagli
Italiani stessi. Ma, nelle rare occasioni in cui gli Italiani si sono sentiti
veramente "partecipi", come durante il Risorgimento o durante la
Guerra di Liberazione, i soldati italiani hanno dimostrato di essere non meno
bravi e valorosi degli altri.
Questa "combattività",
gli Italiani hanno sempre preferito dimostrarla in attività meno cruente, per
esempio nel gioco del calcio, dove al massimo si rischia di rompersi una gamba,
ma non si rischia di morire ammazzati, combattendo per qualche causa altamente
discutibile.
La seguente infelice frase è
attribuita a Churchill (La frase fu pronunciata probabilmente negli anni '40,
ma fu certamente pensata diversi anni prima): "Gli Italiani hanno perso le
guerre come se fossero incontri di calcio, e gli incontri di calcio, come se
fossero guerre".
Frase infelice, appunto, non solo
perché offensiva nei confronti del valore degli Italiani, ma anche perché
esprime il complesso di superiorità che avevano a quei tempi gli Inglesi in
fatto di guerra e di gioco del calcio.
Per quanto riguarda le capacità
belliche, questo complesso di superiorità aveva qualche fondamento: allo
scoppio della seconda guerra mondiale l'Inghilterra era La Superpotenza. Non
solo l'Impero Britannico controllava mezzo mondo, ma controllava anche il Mare
Nostrum con la sua flotta e con le sue basi a Gibilterra, a Malta, e
l'entrata del Canale di Suez. Se si contano anche gli Indiani, i Canadesi, gli
Australiani, ecc., aveva uno degli eserciti più potenti del mondo. L'Italia, invece era allora, sì, "La
Regina del Mediterraneo", ma con tutte le porte controllate dagli Inglesi,
ne era anche la "Regina Prigioniera".
Anche in fatto di calcio,
l'Inghilterra (fatti alla mano, a ragione) si riteneva al di sopra delle altre
squadre nazionali, al punto di "snobbare" la Coppa Rimet (ideata da
un Francese). Che tutti gli altri facessero questo campionato mondiale da
burletta, e che poi venissero a sfidare i veri campioni, la Nazionale Inglese…
e a prendere le dovute batoste sul campo…
Questo complesso di superiorità,
per quanto giustificato, dava fastidio non solo alla Francia e all'Italia, ma
anche alla Germania e all'Austria, che in più avevano il complesso di
inferiorità di aver perso la prima guerra mondiale.
E così arriviamo all'anno 1934,
che viene ricordato negli annali di oggi solo per i Mondiali di calcio giocati
in Italia. Il resto degli avvenimenti politici di quell'anno è stato invece
subito dimenticato da quelli che affollarono il calendario europeo nel decennio
successivo. È quindi d'uopo rinfrescare
qui la memoria partendo, ma sì, proprio da quei Mondiali, visti però in maniera
un po' diversa: politica.
L'Inghilterra, come detto, li
aveva snobbati.
Dopo le varie partite
preliminari, quattro squadre si trovarono ad affrontare le semifinali: Italia,
Germania, Austria e Cecoslovacchia.
Le due partite ebbero una
fortissima carica politica: in Germania, l'anno prima, era salito al potere
Hitler, che non nascondeva le sue mire espansionistiche sull'Austria e sulla
popolazione tedesca dei Sudeti, in territorio Ceco. La Storia ci insegna che
quattro anni dopo, nel 1938, Hitler portò a termine l'Anschluss, l'annessione
dell'Austria e, grazie ai Patti di Monaco, con l'approvazione dell'Inghilterra,
della Francia e dell'Italia, l'annessione dei Sudeti prima e dell'intera
Cecoslovacchia poi.
Ma le cose stavano ben
diversamente nell'estate 1934.
L'Austria era governata da un
dittatore "stile Mussolini", un tappetto di nome Dollfuss
(Fortepiede), che era il "barboncino" del Duce. Con la salita al
potere del Nazismo in Germania, i Nazisti austriaci fecero pressione a favore
dell'annessione dell'Austria alla Germania. Un mese dopo i Mondiali, tentarono
anche il colpo di stato, occupando il parlamento ed assassinando Dollfuss, ma
il tentativo fallì, proprio perché Mussolini fece capire chiaro e tondo a
Hitler che l'Italia non avrebbe mai consentito l'annessione dell'Austria alla
Germania. E, per dimostrare la serietà delle sue intenzioni, mandò l'esercito
al Brennero, pronto a difendere l'Austria dall'invasione tedesca.
Hitler, da poco salito al potere,
non era ancora pronto a conquistare l'Europa, e capì l'antifona.
Non è del tutto irreale pensare
che alla decisione di aspettare ancora un po' abbia contribuito anche il fatto
che l'Italia era il neocampione del mondo: gli Italiani, dopotutto, forse non
erano quelle leggendarie pappe-molli, quando si trattava di combattere una
giusta battaglia. Per ora era meglio andarci con cautela.
Mussolini, a scanso di equivoci,
decise di mettere le cose ancora più in chiaro, facendo le Grandi Manovre
Militari, alla presenza degli osservatori esteri.
Nelle Grandi Manovre ci scappò il
morto, il che contribuì non poco a far presente a tutti, Italiani e stranieri,
che le Manovre non erano un gioco, ma una cosa seria.
Il Capitano d'Aviazione Nicola
D'Amico, proprio l'ultimo giorno delle Grandi Manovre, alla presenza delle più
alte autorità dello stato, simulando un attacco a volo radente, urtò il cavo di
un pallone frenato, e si schiantò al suolo, sul crinale dei Tre Poggioli.
L'anno dopo, Mussolini gli dedicò
un monumento sul luogo della caduta: un fascio littorio con alla base i resti
del motore dell'aereo (come vedremo di seguito, questo è proprio il "cippo
mancante" sopra accennato).
Cinque anni dopo in Italia le
cose erano cambiate radicalmente .
Pessimi i rapporti con Francia e
Inghilterra, ottimi quelli con la Germania, che si era già pappata Austria e
Cecoslovacchia, e stava per papparsi la Polonia.
L'Italia, nel frattempo si era
pappata la meno allettante Albania. Comunque il discorso "del carro
armato" ai Tre Poggioli, fatto in origine proprio per minacciare Hitler e
mandargli un solenne avvertimento, aveva ora assunto per i Fedelissimi della
Decima Legio, un significato completamente opposto. Era giunto il momento di
erigere un monumento eterno alla memoria del Duce e del suo discorso profetico.
Fu prescelto il luogo: a poche
decine di metri dal monumento eretto in memoria dell'aviatore caduto durante le
Grandi Manovre. Lo stile della stele: un enorme fascio littorio, alto 16 metri,
rappresentante il Duce, sopra un carro armato di stile futurista. La struttura
di cemento armato, fu eretta a quota 841, sul crinale dei Tre Poggioli, proprio
sul confine regionale, in modo da essere visibile a grande distanza. E perché
il "cippo" rimanesse nei giorni a venire, fu ricoperto di bozze di
granito provenienti dal Sasso della Mantesca, una struttura vulcanica dei
paraggi, legata da una leggenda all'atra struttura vulcanica vicina, il Sasso
di San Zenobi.
Il luogo fu prescelto anche
perché si trovava accanto a quel sentiero passante sul crinale, che non era un
sentiero qualunque. Si trattava della presunta Flaminia Minor,
l'antica strada romana di cui non si era persa la memoria, ma si era persa la
traccia.
Detta in breve, questa è la
storia della Flaminia Minor, detta anche Flaminia Militare:
L'antica strada romana non va
confusa con la Via Flaminia, l'odierna SS 3, fatta costruire ovviamente dal
console Flaminio, che congiungeva Roma con le importanti colonie di Arezzo e di
Rimini.
A costruire la Flaminia Minor fu
suo figlio (anche lui console e anche lui Flaminio), quando i Romani, dopo aver
scacciato i Galli Boi e i Liguri, che occupavano gran parte dell'odierno
Appennino Tosco-Emiliano, ritennero opportuno costruire una via di
comunicazione diretta tra le nuove colonie di Firenze e di Bologna, soprattutto
ad uso militare (da qui il nome), per raggiungere più velocemente il centro
della Pianura Padana, in caso di bisogno.
Più recenti studi archeologici
hanno rivelato che la Flaminia Minor originale passava parecchio più a ovest
dei Tre Poggioli, sul crinale a ovest del torrente Savena, sulla linea diretta
tra Firenze e Bologna, attraverso il passo della Futa, ma al tempo degli eventi
narrati, il percorso dell'antica strada militare romana era ancora frutto di
speculazioni.
Come mai si era persa la traccia
della Flaminia Minor?
La strada ebbe breve vita già al
tempo dei Romani. La conquista della Gallia Cisalpina e le estreme difficoltà
di manutenzione in un terreno montagnoso ed impervio, la fecero cadere presto
in disuso. Ma non completamente. Di fatto furono costruite diverse strade
alternative, tutte in parallelo da nord a sud, sui crinali tra i vari torrenti
che scendono verso la pianura Padana, che furono sfruttate per tutto il
Medioevo sia da quelli che calavano su Roma con intenzioni pacifiche (i
pellegrini) sia con intenzioni meno amichevoli (i vari eserciti stranieri). Una
delle strade alternative certamente passava sul crinale che poi continuava tra
le valli dell'Idice e del Santerno, passando accanto ai Tre Poggioli.
Il "cippo"
commemorativo, quindi, se pure non fu posto accanto alla strada romana
originale, di cui ancora non si sapeva il vero percorso, fu posto
effettivamente accanto a una delle alternative medievali della Flaminia
Militare.
E sul quel modesto sentiero
passarono, cinque anni più tardi, i Salmeristi del 5°, all'ombra dei due
"cippi" di confine: La stele commemorativa del "discorso del
carro armato" e il monumento in memoria dell'aviatore caduto durante le
Grandi Manovre.
La Storia ci narra che la stele,
contrariamente alle intenzioni di chi l'aveva eretta, non sopravvisse a lungo.
Nel '45, alla fine della guerra,
i Partigiani locali distrussero la stele dei Tre Poggioli, facendola saltare in
aria con tanto esplosivo, da distruggere pure il monumento all'aviere. La necessità
di ferro e di materiale da costruzione fecero il resto: in poco tempo del
monumento restarono solo la vignetta di Fortuzzi e la cartolina commemorativa.
Le bozze di granito prese dal Sasso della Mantesca servirono per costruire una
fontana pubblica in un paesetto vicino.
Ma il "cippo"
troneggiava ancora là, sui Tre Poggioli, ai primi di ottobre del 1944, quando
gli passarono accanto, percorrendo la presunta Flaminia Militare, i 250 salmeristi
italiani con i loro 250 muli, al seguito del loro reggimento americano: il
339th Reggimento di Fanteria "Polar Bears" (Orsi Polari).
Molte unità militari di tutti i
tempi hanno scelto come loro simbolo animali feroci, ma lo stemma (in Inglese
"crest") del 339th Reggimento è uno stemma molto curioso.
Noterete innanzi tutto la scritta
in… Russo: "Le baionette decidono". Cosa ci sta a fare una scritta in
Russo sullo stemma di un reggimento americano?
Nell'angolo in alto a sinistra
noterete tre uccelli neri in campo dorato. Andate a guardare lo stemma della
Cadillac, e scoprirete le stesse figure, di forma un po' diversa: qui sembrano
corvi, là sembrano papere, ma in entrambi i casi si tratta di balestrucci,
specie di rondini marine, simbolo della famiglia del fondatore di Detroit,
città da cui provenivano gli uomini del reggimento originale.
Ed ora al legame russo: Il 339th
Reggimento fu costituito alla fine della prima guerra mondiale, e fu mandato in
Russia a combattere conto i… Bolscevichi. Una spedizione militare disastrosa,
frutto di una politica molto discutibile, che ancora oggi ci fa pensare ad
altre spedizioni americane altrettanto disastrose e discutibili. Ma lasciamo la
politica da parte. Gli "Orsi Polari" del 339th Reggimento avevano
ancora quello stemma allo scoppio della seconda guerra mondiale, quando
facevano parte della 85th Divisione "Custer". La "Custer"
aveva preso il nome da quell'eroe nazionale americano, altrettanto discutibile,
che ci lasciò la pelle, "incornato" a dovere da Toro Seduto e da
Cavallo Pazzo, che difendevano la loro patria. Ma ognuno gli eroi nazionali se
li sceglie come gli pare…
La "Custer" e gli
"Orsi Polari" si fecero onore combattendo sul suolo italiano. Il
339th partecipò all'aspra battaglia di Minturno, sul fronte di Monte Cassino,
che aprì la strada per Roma, e poi sulla Linea Gotica, nelle battaglie del
Passo del Giogo, di Monte Coloreta, di La Matina e di Monte Bibele.
Soldati valorosi, accompagnati
per tutta la via dai fedeli muli del 5° Salmerie "Monte Cassino".
C'è da dire che anche gli
Americani, influenzati dai loro vecchi sponsor Inglesi, all'inizio non avevano
una grande stima per le capacità belliche degli Italiani ma, a differenza degli
Albioni, impararono rapidamente la lezione, quando, dopo qualche inutile quanto
ridicolo tentativo di usare i carri armati e le jeep su per le fangose montagne
dell'Appennino, si accorsero che gli Alleati, per andare avanti, avevano
bisogno non di teorie belliche "by the book", ma dei montanari locali
alla guida dei loro fedeli muli: i "Mulemen", i reparti di Salmerie
Someggiate. Il 339th, dopo la battaglia di Minturno, ebbe in dotazione il 5°
Salmerie "Monte Cassino".
Il resto della storia delle due
gloriose unità è scritto altrove.
Per ricordare la gloria degli
antenati, i posteri costruiscono i monumenti.
Ma Al 5° Salmerie Someggiate
"Monte Cassino" non ne hanno eretto ancora nessuno.
Perfino al Capitano D'Amico fu
rifatto il monumento nel 2005, quando probabilmente la maggior parte dei
presenti ignorava il perché e il percome furono fatte le Grandi Manovre, nelle
quali aveva perso la vita l'aviatore.
Al 339th, invece, hanno fatto due
monumenti. Uno rappresenta un orso polare e si trova a Troy (Troia), vicino a
Detroit, negli Stati Uniti, da dove provenivano molti soldati del reggimento.
Ma quel monumento ricorda il reggimento che combatté contro i Comunisti, nella
Prima Guerra Mondiale.
Il secondo monumento, ben più
modesto, si trova a Tremensuoli, una frazione di Minturno, vicino a Gaeta, dove
il 339th partecipò alla durissima battaglia, alla fine della quale fu sfondata
la Linea Gustav.
Ma il 339th proseguì poi la
guerra per un altro anno, facendosi onore sul campo della Linea Gotica, sempre
accompagnato dal suo fedele 5° Salmerie.
Sarebbe ora di erigere un altro
monumento, magari in cima ai Tre Poggioli, al posto del cippo fascista fatto
saltare in aria.
Propongo un bell'orso polare
rampante, con accanto un recalcitrante Adeodato, il fedele mulo del soldato
semplice Mario Pace, del 5° Salmerie "Monte Cassino".